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copertina numero 86 la bassa

la bassa/86

anno XLV n. 86, Giugno 2023

Estratti di
articoli e saggi
della nostra rivista

In copertina:
Particolare della carta
Fori Iulii accurata descriptio
dal “Theatrum Orbis Terarum
di Abraham Ortelius (1527 - 1598)
Anversa 1573

Edifici con arco,
d'ingresso alla corte
nobile del palazzo
de Asarta-Kechler
a Fraforeano

Sommario

  • ENRICO FANTIN
    Padre Agostino Morossi da Latisana
  • GIANFRANCO ELLERO
    Tiziano Tessitori politico poliedrico
  • MARIA TERESA CORSO
    Storia delle Famiglie Marianini
  • BRUNO ROSSETTO
    La go la go vista con i to oci
  • CARMELA DE CARO
    Rojs, Stradelis e Mulins a Ciasarsa
  • ROBERTO TIRELLI
    San Marco di Aquileia, Alessandria, Venezia o Reichenau?
  • RENZO CASASOLA
    Sulle origini del cognome Del Piccolo di Muzzana Contributo per una ricerca onomastica genealogica
  • ENRICO FANTIN
    Il sacrificio ed il martirio di alcuni deportati militari latisanesi nei campi di sterminio nazisti.
    I loro nomi: nel ricordo di una Pietra d’inciampo.
  • GIANFRANCO ELLERO
    C’era una volta in Friuli di Ciccinella Kechler
  • GIANFRANCO ELLERO
    L’atlante linguistico friulano ignorata miniera a cielo aperto
  • FRANCA MIAN
    Per l’ottavo Centenario del Serafico (1223-1226) L’iconografia mosaicata del Maestro spilimberghese Rino Pastorutti
  • ENRICO FANTIN
    Un nuovo progetto per la realizzazione di un Ospedale di comunità e Casa di comunità a Latisana
  • ROBERTO TIRELLI
    Francesco dall’Ongaro in casa Valussi a Talmassons
  • MAURO BULIGATTO
    Depredazioni e riflessi onomastici

Padre Agostino Morossi da Latisana

Enrico Fantin
Introduzione

Attratto dalle avventure del dotto frate francescano, Padre Guglielmo da Baskerville, diventato famoso tramite la penna di Umberto Eco con il romanzo “Il nome della rosa” ed immortalato dall’omonimo film, ho trovato un’autentica somiglianza fra l’interprete del film, l’attore Sean Connery, ed il ritratto di Padre Agostino Morossi.

Da qui era partito l’input, verso la fine degli anni Ottanta, l’interesse per approfondire le ricerche sulla vita dell’illustre frate latisanese, cavalcando un po’ la fantasia ed immergendomi in quel tempo, ma soprattutto contattando i vari Archivi storici dei Frati Minori Capuccini e non solo.

Come il lettore potrà constatare ed evincere in questo mio lavoro, P. Agostino viaggiò molto, anzi moltissimo, nella sua lunga carriera religiosa, dove gli spostamenti avvenivano a piedi, a cavallo, per alcuni più fortunati in carrozza, ed anche in barca attraverso i canali della laguna Veneta. Ogni viaggio riservava a tutti un’avventura e spesse volte questi viaggi, oltre ad essere delle avventure, erano anche avvolti da misteri.

Misteri e lettere segrete da parte dei Potenti o dei Senatori della Serenissima oppure anche da ignoti a favore o contro Padre Agostino; in conclusione, moltissime cose e fatti che il nostro illustre concittadino portò segreti nella dipartita. La fantasia avrebbe voluto primeggiare e volare in questo racconto, ma la ragione ci porta a limitarci a tradurre in storia vera, cioè quella tramandataci attraverso documentazione autentica.

Già altri emeriti studiosi e biografi prima di me, tra i quali: fra Sigismondo da Venezia, il biografo più vicino ai suoi tempi e più autorevole, Padre Antonio Maria da Udine, Padre Gio-Cristofomo da Cittadella, avevano tracciato un profilo dell’insigne religioso latisanese.

Anche Padre Basilio Asquini, scrisse di Lui, con qualche inesattezza riscontrata nel suo libro sugli Uomini illustri del Friuli (Venezia, 1735). Nacque così un primo articoletto apparso nella rivista “la bassa/22” del 1991. In seguito le ricerche e i contatti continuarono attraverso gli Archivi Storici del Frati Minori Capuccini di Venezia e di Roma, dell’Archivio di Stato di Venezia, nonché della Famiglia Morossi ed altre fonti.

Così, grazie alla collaborazione e la pazienza dei loro archivisti, sono emersi dei nuovi documenti che andranno ad impreziosire il contributo grazie anche al servigio che la tecnica odierna ci offre con l’ausilio delle macchine fotografiche e delle fotocopiatrici.

Ritratto Padre Agostino Morossi

Ritratto ad olio, su tela, di Padre Agostino Morossi conservato dalla famiglia.
(Foto Brisighelli – per gentile concessione e inviata dall’Ing. Diomede Morossi, 18.04.1991)

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Tiziano Tessitori politico poliedrico

Gianfranco Ellero

Tiziano Tessitori

Da Messaggero Veneto 18 aprile 2023 .

Tiziano Tessitori, il più grande uomo politico del Friuli nel secolo scorso e storico d’alto livello, sarà probabilmente ricordato, nel cinquantesimo della morte, come “padre della Regione”, definizione semplificatrice e riduttiva: non si può dare per noto, infatti, il lungo processo culturale e politico che precede l’appello del luglio 1945, cioè la chiamata di tutti i friulani di buona fede “a stringersi compatti per la buona battaglia che è seria, nobile, alta e che deve finire con la vittoria per il miglior avvenire della Patria del Friuli”; si deve anche spiegare che soltanto per non finire nel Veneto a statuto normale il 27 giugno 1947 aveva accettato la Regione Friuli-Venezia Giulia a statuto speciale: decisione che suscitò una levata di scudi anche nel suo partito, la Democrazia Cristiana, e gli costò una bomba sul cancello della sua villa sul Viale Venezia.

Nato a Sedegliano nel 1895, dopo le elementari, come altri ragazzi friulani, intellettualmente dotati ma privi di sostegno economico, aveva frequentato il Seminario di Udine, dove fu allievo di Pio Paschini e Giuseppe Ellero.

In quella scuola “modernista”, Tessitori studiò teologia, ma anche storia del Patriarcato d’Aquileia e divenne sensibile alle istanze sociali, che ben conosceva anche per le sue umili origini: arretratezza agraria, emigrazione, isolamento dei contadini, vessati, dopo la Grande guerra, dai proprietari terrieri che pretendevano i fitti anche per l’anno dell’invasione.

Dopo aver prestato servizio militare, era naturalmente pronto, nel 1919, per accogliere l’appello lanciato il 18 gennaio da don Luigi Sturzo “a tutti gli uomini liberi e forti”, e per schierarsi, al fianco di Agostino Candolini, nel Partito Popolare, che proponeva la riforma regionalistica dello Stato: una riforma, disse in un discorso al Senato, che Cavour non riuscì a realizzare perché morì troppo presto. Si impegnò poi nelle “leghe bianche”, cioè nei sindacati dei contadini cattolici, e inventò la “sciopero fiscale” come strumento di lotta contro uno Stato cronica mente debitore.

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Storia delle Famiglie Marianini

Maria Teresa Corso

Stemma Araldico Famiglia Marianini

La famiglia Marianini, grazie all’eredità Zapoga, ricoprirà per mezzo secolo un ruolo di rilievo a Carlino e a Marano, dimorando negli edifici più nobili dei due paesi

A Carlino c’era l’orco. In piazza posava un piede sulla casa di Zaboga e l’altro più in là; e poi faceva i dispetti alla gente. Talvolta si divertiva a ficcarsi in una stalla e a sostituirsi ad un bue o ad una mucca.” (Tiaris d’Aquilee, pag 67).

Stemma Marianini

Arma “D’azzurro, alla fascia di rosso, caricata del motto ‘Me Phisica’ in lettere maiuscole d’oro, accompagnata in capo da un’aquila dal volo abbassato di nero ed in punta da due folgori d’oro, discendenti da detta fascia e passate in croce di Sant’Andrea
(G.B. Di Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, Vol.II, Forni Bologna, 1886).

Vi è notizia, secondo la quale molte famiglie Marianini siano arrivate in Friuli dal Piemonte e dalla Lombardia. In particolare nel 1940 a Torviscosa si registrano arrivi di persone come Martinotti, Milanese, Marianini che andranno poi a vivere nel cervignanese. Si trattava di occupazione nella fabbrica di Torviscosa, cittadina nascente e all’avanguardia in Italia per la produzione della seta artificiale come il rayon. Molte famiglie si fermarono in Friuli, come si diceva, ma i Marianini di cui si parla in questa ricerca erano già presenti in regione nel sec. XIX. Per quanto riguarda il grado di parentela con il noto protagonista Gianluigi Marianini di Lascia o raddoppia?, noto ai telespettatori negli anni Cinquanta, gli informatori confermano una stretta parentela. La famiglia Marianini di cui ci stiamo occupando proveniva dalla Lomellina, Mortara, zona ricca di estese risaie. Il capostipite di cui abbiamo notizia si chiamava Giovanni Battista, nato nel 1765 circa ed era medico condotto in quelle località. Si sposò con la signora Lucia Anselmi con la quale mise al mondo tre figlioli: 1.Stefano-Giovanni, 2.Clemente e 3. Pietro.

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La go la go vista con i to oci

Bruno Rossetto

Gera trenta ani che no la vedevo, de quela volta che mi e la Elda gererevomo ndài par assiste nostro fio Mauro che ’l deva l’esame de Architerura. A me mujer ghe piase tanto Venessia e ogni ano la me tormenta che la vol tornà a vedela ncora na volta. Desso che son qua, che la vardo sensa de ela parchè la xe in ospedal a Udine, i xe drio daghe piastrine e sangue par vede de tirala un poco su, e... speremo!

Che bela che te xe Venessia. Son tornò a vedete parchè me ga invitò me nevodo Giona, ancuo el fà l’esame de laurea breve a l‘Academia “le bele arti” e cussì con so sorela Emma, so morosa Luduvica, so sorela Emma, Mauro e Rosella semo drio caminà curiosando: vardà le cale, piassa de i alberi, ponte de l’Academia. Bevuo un bon bicer de vin; visitò el vecio squero, cale de i bisati, viste cese, zirò tre ore Venessia, con la boca verta anca colpa i ani che me trovo, rivai davanti l’Academia, semo entrai e vemo spetò che rivissi el turno del Giona.

Giona tornio da i so amici, el ga za messo el progeto de tesi al so posto: pronto de mostraghelo ai professuri. Co i xe rivai, naltre semo restai a spetà fora. Sol dopo, co i xe passai nte l’altra stansa, ‘mo podesto entrà par sintì la tesi, el discorso che ga fato el Giona davanti i professuri.

Gero agitò e duto comosso. Invissi Giona, calmo, el veva tacò fa la so relassion sensa mai intopasse, come se ’l fussi stò... I quatro professuri i steva a sintìlo, ogni tanto i se feva moti de assenso con la testa... no capivo gnente, sol dopo finìo, vevo sintìo che ‘l professor el veva mensonò Giona Rossetto e butò un 110 con lode batendoghe le man e po’, anca i altri professuri i ghe le ga batue, e naltre drio. El gropo nte stomego el se gera smolò e, strento me nevodo, pianzendo, ghe go dito: «grassie Giona».

Foto de rito davanti l’Academia, fati puchi passi, senpre arente el Canal de la Giudeca, trovada n’ostaria se vemo fermai a festezà la lode, con tramezini e do butilie de bon spumante. Rivae le quatro, Mauro col telefonin el ga ciamò so mare in ospedal par daghe la bela nutissia, po’ el ghe lo ga passò al Giona. Giona el ga parlò un poco e comosso, el me lo ga passò a mi. «Ciao Elda, come te sta?» La steva pianzendo de contentessa. Senpre con la testa a pensa i fioi, i so nevudi: «Vidi de saludali!» la disi ogni volta. «Daghe un baseto al Giona, a la Emma, a la Beatrice e al Kevin. Dighe che ghe voio tanto ben!»

«Elda, che bela zornada che ‘mo passò insieme. Da Milan xe rivada la so amica Maria, e po’ so mare e anca la Martina. Che forte che xe to nevodo! E po’ comosso, ghe go dito: Elda, che bela che xe Venessia: la go vista con i to oci».

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Rojs, Stradelis e Mulins a Ciasarsa

Carmela De Caro

Cartolina Saluti da Casarsa

“A Casarsa c’è una cosa da fare: togliere metà delle viti che ci sono e non perché non mi piacciano; le viti le ho coltivate da sempre e potato finché ne ho avuto la forza ma, la loro piantumazione, ha costituito la distruzione degli ambienti tipici di Casarsa, rovinato le rogge, anche quella del corso del Lin. Attorno a esse, lungo le sponde, vi erano alberi per due o anche tre metri; esisteva un parco che veniva giù da Valvasone, da San Lorenzo e i fossati ovunque erano colmi d’acqua”. Così afferma un anziano del paese nel citare i suoi ricordi di bambino legati come le viti ai giunchi e ai rivi d’acqua. Di questo paradiso perduto, a oggi, resta solo qualche angolo che rivive nella stagione giusta quando le acque sono alte, cosa oggi rara: solo così la campagna torna a vivere e a riprendere l’aspetto di qualche anno fa. “Ta la Staipa, di sora il simiteri, dulà che secont i documents a nasseva la Versa”, l’acqua era tanto forte da sollevare il coperchio del pozzo e riempire i fossi a valle, adesso non v’è più nulla! Se si vuole vedere un boschetto dove l’acqua sgorga dalle radici dei giunchi, bisogna andare alla foce della roggia Mussa nella stagione delle piogge.

E acqua continua e chiara era quella del Sile che nasce nel Boscat. E, nella torbiera, un paradiso di flora vive da migliaia di anni: pare di camminare su un cuscino di terra fatto di erba e di tempo, di “timp antic”, di quel tempo che, secondo P.P. Pasolini, fa tremare Casarsa. Attraversando le Miriscis pare di entrare ancor più in quel tempo antico in cui, secondo immaginazione e sogni popolari, vivevano le “fate aganis”. E quando l’acqua colma la Versa, allora la natura mostra il suo volto più incantevole: le radici delle acacie si dissetano insieme col Martin pescatore e gli usignoli marcano la strada con la loro voce, la più bella della natura secondo molti.

La “Mussa”, la “Versa”, il “Lin”, il “Sile” .. si tratta di rii, rogge e fiumicelli che nascono dalle numerose “olle” di risorgiva dette anche “fontanili e, in friulano, “resultuns”. Piccole sorgenti posizionate nella media pianura friulana, in particolare nella provincia di Pordenone, nelle terre dove terminano i magredi e iniziano le zone argillose: proprio questa dissomiglianza del suolo protratta sin nelle profondità, crea le risorgive d’acqua. L’acqua, infatti, smette di scorrere sotto le ghiaie e non riuscendo a superare lo strato argilloso, emerge formando le tante risorgive proprio nella designata “linea delle risorgive” che inizia da Sacile per arrivare a San Vito al Tagliamento. A valle di ogni sorgente si forma un piccolo canale d’acqua largo pochi centimetri che unendosi ad altri crea piccole rogge poco distanti tra loro spesso parallele con direzione N-S. Scendendo più a sud, questi piccoli rii si uniscono tra loro creando piccoli fiumi. Così il fiume Fiume che attraversa Fiume Veneto, Azzano e Pasiano, così il Sile che, alla conclusione del suo corso si unisce al fiume Fiume per immettersi nel Canale Postumia e sfociare nella laguna di Caorle.

Nel suo paesaggio, comunque, l’acqua ha un ruolo vitale sia che si tratti del grande Tagliamento, sia del magico affiorare di acque risorgive che sono all’origine del sistema idrografico anche Lemene e del Reghena. In tempi molto vicini a noi la campagna era tracciata da corsi d’acqua incanalati in gallerie di alberi, tra prati di sfalcio e acque risorgive, attorniate da ontani e macchie di farnie e carpini che null’altro erano che resti di antiche foreste; ogni spicchio di terra aveva un nome legato ad un piccolo arativo o a un frammento di prato: nomi suggestivi, descrittivi, evocativi di antiche lingue estinte o di uomini o cose. Questa toponimia aveva un senso nel vivere quotidiano proprio per la varietà paesaggistica, oggi causa l’omologazione dei luoghi, non avrebbe più senso.

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San Marco di Aquileia, Alessandria, Venezia o Reichenau?

Roberto Tirelli

L’isola di Reichenau sul lago di Costanza (Boden see), oggi all’incontro dei confini di Germania, Austria e Svizzera, all’interno di quel che resta di un suo celebre monastero, conserva le reliquie di San Marco entrando così, come quarta protagonista, della plurisecolare disputa sulla eredità marciana fra Aquileia, Alessandria d’Egitto e Venezia. Perché Marco? Perché è discepolo di Pietro, parente di Paolo, testimone della passione di Cristo, porta con sé il fascino dell’Oriente...

L’isola germanica è un luogo mistico e di preghiera: “Est locus in eadem regione situs qui recto nuncupatur vocabulo quia Rhenus ab decurrens immani eam circumfluit amne ideo cunctarum conjunctione confinium carens tribuente in hereditatem s Mariæ donatus sæculari servitio est segregatus in ejusdem genitricis dei Mariæ monasterium deo dicatum ab omni sæculari cura remotum sapientia pollens doctrina fulgens disciplinam quærentibus solatium præstans laude omnipotentis dei assidue perseverans. In monasterii basilica corpus prædicti collocatum esse non dubitamus multi enim de hoc dubitaverunt quando ad sepulchrum aut nimio timore perterriti aut visione correpti statim ut inde discesserunt deposita ultro se ei cum omni impendere decreverunt”.

Nella Chiesa primitiva e poi in quella medievale le reliquie hanno avuto l’importanza dell’essere testimonianza, non di rado miracolosa, dei padri fondatori e ciò, in particolare, per quel che riguarda il Vangelo aquileiese e le spoglie dell’evangelista Marco prima in Alessandria e poi in Venezia. La svelata presenza nella terra di Alamannia di un corpo del santo mette in difficoltà quanti tentano di stabilire se non la storicità almeno la logica primogenitura marciana di Aquileia –Alessandria e la fondatezza dell’assunto veneziano del custodirne il corpo.

Il tutto parte dal Concilio o Sinodo di Mantova del 837. Ci sono da dirimere le controversie fra il Patriarca dell’Aquileia vetus (di terraferma), Massenzio ed il Patriarca dell’Aquileia nova (marittima) Venerio circa la “primogenitura” di colui che è considerato da tutte due le Chiese quale padre e fondatore, San Marco . Non si tratta soltanto di una questione interna alla religione, ma ha anche un evidente valenza politica.

Il Papa Eugenio II ed il re d’Italia Lotario, erede di Carlo Magno da poco scomparso, vorrebbero che questa divisione in una regione strategica per il Sacro Romano Impero avesse fine una volta per tutte. Presiedettero Benedetto vescovo e Leone bibliotecario legati della Sede romana. Da parte degli Augusti intervennero Sicardo palatino presbitero e Teodoro. Vi assistettero gli arcivescovi di Ravenna e di Milano nonchè molti prelati dell Emilia della Liguria e della Venezia. Si narra che dopo aver inutilmente atteso l arrivo di Venerio per cinque giorni finalmente comparve un certo Tiberio diacono economo della chiesa di Grado inviato da Venerio a difendere la sua causa.

Come già ricordato Massenzio si presenta al Concilio con un libellum con il quale ripercorre le vicende delle reliquie aquileiesi e conclude che solo l’Aquileia vetus è stata legittimata a ricevere l’eredità spirituale. “Nos, qui veritate perfecta invenimus a beato evangelista Marco, qui spiritualis et ex sacro fontis utero ac carissimus sancti Petri apostoli fuit filius,necnon ab elegantissimo Hermachora Aquileiensem ęcclesiam pre omnibus Italie in Christi fide prius fundatam esse, et pastoralem ibi semper curam servatam et sanctorum apostolorum sancte Romane ecclesie doctrinis imbutam atque ipsam semper eius fuisse discipulam, et peculiarem ac vicariam in omnibus,quemadmodum insertum in eiusdem Aquileiensis ecclesie comperimus sacris litteris. E poi specifica: “Antiquorum igitur recitatis historiis, Aquileiam matricem semper et metropolim fuisse repperimus, Gradus autem plebem eius esse omnino comperimus”.

La più antica testimonianza che si possa citare in favore della predicazione di S Marco in Aquileia è nell’ opera di Paolo Diacono De ordine episcoporum metensium (di Metz) scritta fra il 783 e il 786 ove si dice che Pietro “Marcum vero qui praecipuus inter ejus discipulos habebatur Aquilejam destinavit quibus populis cum Hermagoram suum comitem Marcus praefecisset ad beatum Petrum reversus ab eo nihilominus Alexandriam missus est”. La conclusione del Concilio mantovano è “Paene omnes sciunt Aquileiam Civitatem primam et metropolim esse et a beato Marco et Hermachora in Christi fidem fundatam”. Sulla fine del sec VIII anche il patriarca aquileiese Paolino, pure lui da poco scomparso,componeva un inno in onore di S Marco che ha le stesse notizie che riguardano: “innumeros sua (di Marco ndr) predicatione et doctrina subsequentibus signis ad Christi fidem convertit. Nam juvenem quendam Athaulfum filium Ulfi leprae morbo percussum in suburbanis Aquilegiae sanitati restituit et supplicantibus Neophytis Evangelium suum transcripsit et observandum dedit quod usque in odiernum diem in eadem Ecclesia devotissime veneratur”. Il voto dei vescovi presenti a Mantova sulla mozione di Massenzio è chiaro: “si secundum has auctoritates Aquileia semper metropolis fuerit, aut si provintia que contra canonum statuta in duos metropolitanos divisa est ad unam et primam reformari deberetr. “Et si placet eorum petitio, clara voce proferte!” Universi respondentes dixerunt: “Iusta est Histrianorum petitio. Et quia [quod] Aquileia semper metropolis extitit dominaque fuit Gradensium novimus, et quia contra patrum decreta divisa est, ideo auctoritate patrum ad priorem statum reformetur, omnibus nobis placet.” Et illi respondentes dixerunt: “Et nobis ita placet”.

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Sulle origini del cognome Del Piccolo di Muzzana Contributo per una ricerca onomastica genealogica

Renzo Casasola
Ipotesi etimologica

Il cognome Del Piccolo si attesta a Muzzana nel XVI secolo ed è tuttora il più diffuso nel Comune, seguito a distanza dal cognome Franceschinis (Bini, Della Ricca 2003: 186-195). Il prefisso ‘del’, poi, indicherebbe una forma patronimica nel senso di ‘figlio di …’, mentre l’aggettivo ‘piccolo’ sarà stato certamente riferito al capostipite o ad una sua peculiarità morfologica che, come si vedrà in seguito, andrà a qualificare anche i Del Piccolo di Muzzana (Alinei, Benozzo 2017). In questo contributo, e con i dati d’archivio a nostra disposizione, indagheremo sulla sua oscura e complessa genesi cognominale medievale che si inserisce, suo malgrado, in quello che fu un contesto storico a dir poco drammatico per la villa marchesca della Bassa.

Le prime notizie onomastiche di questo cognome risalgono al 1530 allorché in un elenco canonicale dei capifamiglia di Muzzana, affittuari che dovevano censo al Capitolo di Aquileia, si registra il nome di ‘messer Francesco detto Pizul’. Il signor Francesco, in una seconda registrazione canonicale e nel medesimo anno, risultava poi essere il figlio del defunto ‘Andrea de Roman’ (ACAq fasc. 94). Ora, si potrebbe supporre che quel Roman si riferisse al nome personale del nonno di Francesco, se non ad una vera e propria forma cognominale già attestata in quella famiglia. Il nome ed il cognome Roman o Romano (voce che deriva dal Longobardo ‘Arimanno’ = ‘guerriero’, perciò ‘uomo libero’) risulta attestato a Muzzana nel XIV e XV secolo (ACAq fasc. 44: 96-100), dunque è tra i più antichi. Se così fosse, il signor Francesco, figlio di Andrea di Roman, o Romano, sarebbe colui che per primo ha dato origine al cognome Del Piccolo, a prescindere detto cognome da quella che sarebbe la sua vera origine onomastica, indica una caratteristica fisica di un esponente della famiglia di Francesco. Tra il volgo friulano l’appellativo ‘pizul’ ha però diversi significati: il primo, di carattere morfologico, è riferito alla statura del soggetto, ‘piccolo’, ‘minuto’, ‘di bassa statura’; mentre il secondo di solito si assegna all’ultimo nato nella famiglia, il ‘piccolo’ o ‘pizul’, appunto. Altra ipotesi etimologica, che in questo contributo è senza dubbio la più vicina alla realtà dei fatti, è la forma onomastica al plurale. Quei primi ‘pizui’, loro malgrado, si saranno perciò contraddistinti in qualche episodio così unico e peculiare da lasciare traccia indelebile e a futura memoria non solo nel ristretto ambito familiare ma pure nel locale tessuto sociale. Comunque sia, i capostipiti dei Del Piccolo saranno stati certamente dei personaggi di spicco, autorevoli e degni di rispetto, se i loro discendenti decisero in seguito di assumere quale proprio cognome la denominazione che in origine era un soprannome.

Le fonti d’archivio

ser Francesco quondam Antonio

Altri dati che ci aiutano a dipanare questa intricata matassa genealogica ci giungono da un verbale della vicinia di Muzzana, datata 23 marzo 1563, allorchè il signor Giacomo, figlio del fu Bernardo e che aveva già il cognome attestato in ‘del Pizollo’, ricopriva l’importante carica di degano del Comune. Ciò attestava che egli, inequivocabilmente, lo esercitava per diritto di loco et foco e che la sua famiglia non solo era del luogo, ma che era già insediata nella villa di Muzzana perlomeno da alcune generazioni, certamente con qualche altra denominazione cognominale. In un verbale notarile rogato il 14 ottobre 1591 il notaio di Palazzolo Lorenzo di Marco registrava le proprietà degli “heredi del quondam Jacomo del Toso”, ad attestare una seconda variante cognominale ‘venetizzante’ del signor Giacomo figlio di Bernardo ‘pizul’. Alla luce di questo indizio assume una particolare attenzione quel ‘ser Bernardus quondam Jacobj’, unico esponente tra i capifamiglia con tale nome registrato nella vicinia di Muzzana del 9 gennaio 1543 e che parrebbe essere proprio uno dei nostri, cioè quel Bernardo, padre di Giacomo del Pizollo, che a sua volta era figlio di un altro Giacomo, certamente nato nella seconda metà del ‘400 e deceduto in data antecedente al 1543. Bernardo, figlio di quest’ultimo Giacomo, che dovrebbe essere nato agli inizi del secolo, avrà perciò patito in prima persona con i fratelli e con il padre il dramma della feroce rappresaglia imperiale sui muzzanesi del 2 marzo 1514. Se il piccolo Bernardo, sopravvissuto a tanta crudeltà e che ebbe poi la fortuna di avere una sua progenie, non è il capostipite di tutti i Del Piccolo attuali lo sarà certamente del ramo antico il cui soprannome tuttora attivo dopo cinque secoli è detto Bernard a lui dedicato a futura memoria.

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Il sacrificio ed il martirio di alcuni deportati militari latisanesi nei campi di sterminio nazisti.
I loro nomi: nel ricordo di una Pietra d’inciampo.

Enrico Fantin

La Giornata della Memoria che si celebra il 27 gennaio è divenuta uno dei momenti più importanti della memoria collettiva, come lo dimostrano le numerose e sentite cerimonie che si svolgono nelle nostre città.

Vale la pena di ricordare che la Giornata viene celebrata a livello internazionale a partire dal 2006, a seguito della risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU del 1° novembre 2005. La data scelta fu quella del 27 gennaio in quanto in quel giorno del 1945 le truppe dell’Armata Rossa, liberarono il campo di concentramento di Auschwitz.

In Italia la Giornata della Memoria è stata istituita con la legge del 20 luglio 2000, n. 211, che recita per l’appunto: «Istituzione del ‘Giorno della Memoria’ in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti»


IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
PROMULGA

la seguente legge:

Art.1
La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto perseguitati.

Art.2
In occasione del “Giorno della Memoria” di cui all’articolo 1, “sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere.”

La presente legge, munita del sigillo dello Stato, sarà inserita nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. È fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato.

Data a Roma, addì 20 luglio 2000.

CIAMPI

AMATO
Presidente del Consiglio dei Ministri



Pietre d'inciampo a Latisana

In questi ultimi anni la ricorrenza ha trovato una rilevante attenzione nel mondo della scuola, delle associazioni e delle istituzioni che hanno promosso iniziative che hanno trovato un riscontro di partecipazione ed adesione. Ricordiamo innanzitutto le visite guidate di studenti delle scuole superiori nei campi di concentramento tedeschi, oltre alle cerimonie presso i monumenti che ricordano la deportazione. Negli ultimi anni ci sono state iniziative per ricordare gli Internati Militari Italiani (IMI) e le Pietre di inciampo, che hanno trovato una vasta adesione. La memoria consiste in una piccola targa d’ottone della dimensione di un sanpietrino (10 × 10 cm), incorporata nel selciato stradale della città, incorporata davanti alla porta della casa in cui abitò la vittima del nazismo o nel luogo in cui fu fatta prigioniera, sulla quale sono incisi il suo nome, l’anno di nascita, la data dell’arresto, l’eventuale luogo di deportazione e la data di morte, se conosciuta. Questo tipo di informazioni intendono ridare individualità a chi si voleva ridurre soltanto a numero. L’espressione “inciampo” deve dunque intendersi non in senso fisico, ma visivo e mentale, per far fermare a riflettere chi vi passa vicino e si imbatte, anche casualmente, nell’opera.

Abbiamo notato soprattutto che la partecipazione a queste iniziative e cerimonie è contraddistinta da un commosso silenzio rivolto a ricordare il sacrificio ed il martirio di queste centinaia di friulani cui non può mancare un pensiero ed una riflessione accorata.

Vale la pena ricordare la motivazione della nomina della città di Latisana a “Mutilata di Guerra”:


LATISANA, antico e laborioso centro della pianura friulana, punto nevralgico di incontri fra eserciti opposti, perché a guardia di vie di comunicazione di grande interesse strategico, subiva nei due conflitti mondiali, immani danni per gli eventi bellici che interessarono il suo territorio:

LATISANA, che nella guerra 1915-’18 vedeva distrutte oltre un centinaio di abitazioni, i due ponti di accesso sul Tagliamento, le sue Chiese, mentre gravemente danneggiati erano il suo Duomo ed il suo Cimitero, perdendo nello stesso periodo oltre 160 cittadini su una popolazione inferiore ai 10.000 abitanti; che nel successivo conflitto 1940-’45, dilaniata da circa 8.000 bombe, ebbe a lamentare, con la distruzione del 70% delle sue case, 88 vittime e gran numero di mutilati;

LATISANA, la cui popolazione si oppose con tenace consapevole coraggio allo strazio delle devastazioni e delle rappresaglie degli eserciti invasori, esulando poi dal suolo natio fra inenarrabili sofferenze spirituali e materiali; che, passato il turbine devastatore, iniziava con alto spirito di civismo, la lunga e difficile opera di ricostruzione, per affacciarsi, con rinnovata fede, a nuova vita di lavoro e di progresso;

LATISANA, per il martirio sofferto e virilmente sopportato, nel culto dei più alti ideali patriottici ed umani, viene acclamata dal Comitato Centrale della Associazione Nazionale fra Mutilati ed Invalidi di Guerra, Socia d’onore della grande famiglia del sacrificio.

Roma, lì 5 aprile 1962


Il 19 maggio 1963, in una cerimonia di particolare solennità, il sottosegretario di Stato alla Difesa sen. Guglielmo Pelizzo, in rappresentanza del Governo, consegnò al Sindaco di Latisana Augusto Rubino, il Distintivo d’onore di “Mutilata di Guerra”, da apporre sul Gonfalone civico.

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C’era una volta in Friuli di Ciccinella Kechler

Gianfranco Ellero

copertina C'era una volta in Friuli

C’è chi intinge la penna nell’inchiostro o “digita” su una tastiera, per essere creativo, e chi immerge i pennelli in liquidi colorati o sceglie “strumenti” diversi. Io, ci ricorda Ciccinella Kechler dalle pagine di “C’era una volta in Friuli”, ho scelto di creare piatti indimenticabili, come quelli che preparai a Venezia in una sera d’autunno per una cena di sette persone a palazzo Contarini Polignac: Aperitivo con brut di Collalto e fichi secchi, Carciofo spinoso sardo e bottarga, Scampi di Cherso, Canocchie bollite, Medaglione di aragosta, Polipo, Moleche (con polenta bianca morbida), Tris di porcini, Tagliolini al tartufo, Ossibuchi (con purè di zucca), Meringa (con salsa di cioccolato caldo). Vini Collalto di Susegana.

Entrée con i fichi secchi? penserà, sorpreso, qualche lettore.

Sì, però quelli erano iraniani o siriani e ben secchi, cioè non appiccicosi, e riempiti di foie gras: Ciccinella li aveva casualmente assaggiati per la prima volta in Francia, nel Perigord.

L’elenco delle sue ricette ricorda un inventario di quadri d’autore: possiamo soltanto immaginare quei piatti, che talvolta si rifanno alle cucine regionali d’Italia e d’Europa (Colazione alla piemontese, Ragù napoletano, Aragosta alla catalana, Lepre alla viennese … ), ma si tratta spesso di “interpretazioni” e talvolta di “invenzioni”.

Il fascino del libro, che rivela la vasta cultura specifica dell’Autrice e testimonia la sua bravura, non sta solo nelle ricette, spesso inimitabili, ma anche nell’ambiente che rievocano e nello stile di vita propiziato dallo status sociale delle persone e dalla partecipazione della sua famiglia a eventi e programmi importanti anche sul piano storico (senza riandare ai Kechler setaioli dell’Ottocento, basti ricordare, qui, la partecipazione della Famiglia nella fondazione del Messaggero Veneto nel 1946 e nella creazione di Lignano Pineta nei primi anni Cinquanta).

Ciccinella è consapevole della caducità della sua arte, che dona gioia agli occhi, esalta l’olfatto, delizia il palato, ma non può essere collezionata come i libri o i quadri: si può goderla soltanto consumandola. Quale la sua scuola “elementare”? La cucina di Fraforeano e, a intermittenza, quella di San Martino di Codroipo. E i maestri? La madre e la nonna, portatrici di una vasta e raffinata cultura culinaria, che scrissero una Bibbia alimentare, il “Quaderno nero”. (Robespierre non c’entra: stiamo parlando di una “Mille e una notte” a tavola!).

È grazie a quel quaderno che possiamo conoscere, ad esempio, il menù del pran zo in onore di Ernest Hemingway, ospite a Fraforeano: Patè di fegato, Insalata di meloni al curry, Frittatine ripiene di ricotta, Riso pilaf con seppie, Salmone bollito, Messicani (involtini di vitello serviti freddi in gelatina), Gelato di crema con lamponi, Crostata di fragole, Mousse di cioccolato.

Come ben si comprende, in queste pagine le ricette sono capitoli di una storia minore, talvolta privata, nella quale l’alta cucina svolgeva un ruolo importante.

È una cucina lussuosa, naturalmente, quella che riusciamo a intravedere sfogliando il volumetto, e – avverte l’Autrice – non sempre praticabile per tenere a bada colesterolo e trigliceridi: una cucina deliziosa, ma costosa anche per la durata della preparazione (“Per fare un buon ragù – ammonisce – dovete per prima cosa scegliere un bel libro che vi accompagni per tutta la giornata, tanto è il tempo che richiede la sua preparazione”), e per i tempi della degustazione, misurabili in alcune ore, non nei minuti dal “fast food” o della cosiddetta “pausa pranzo”.

Quando iniziò a scrivere, Maria Mercedes Kechler, per tutti quelli di Fraforeano, e ora anche per “nom de plume”, Ciccinella, pensava soltanto a un manuale culinario. Poi, ricorda, “ho incominciato ad aggiungere aneddoti e storie per raccontare uno spaccato di storia friulana, e schizzare il ritratto di una famiglia fortunata”, vissuta in un mondo ormai scomparso, “che aveva allora la sua ragion d’essere”.

È un mondo che meritava una testimonianza dall’interno, e anche di questo le siamo grati.

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L’atlante linguistico friulano ignorata miniera a cielo aperto

Gianfranco Ellero

Il Friuli dispone del più bell’atlante linguistico del mondo, ma i friulani non lo sanno; e i pochi che lo sanno non lo sfruttano.

Stiamo parlando di sei volumi in grande formato (cm 45 x 60) che sulla bilancia pesano una sessantina di chilogrammi: un bene mobile, certo, come tutti i libri, ma non maneggevole e neanche agevolmente trasportabile, che finisce quindi per rimanere immobile e … ignorato in qualche biblioteca.

Chi sfoglia quei volumi, tuttavia, rimane affascinato e non li dimentica più, e allora proveremo a descriverli in questo contributo per suscitare interesse intorno a questo grande monumento culturale e per indicare la strada da percorrere per mettere a frutto i tesori che racchiude.

Perché un atlante linguistico?

Il primo a capire l’utilità di documentare il tessuto linguistico che copre un territorio fu Georg Wenker, che nel 1882 rappresentò graficamente i suoi studi sui dialetti tedeschi. Egli, sulla base di un questionario inviato ai parroci della Germania, riuscì allora a tracciare linee che separavano l’area del Dorf (villaggio) da quella del Dorp, la zona dell’Apfel (mela) dalla zona dell’Appel, e così via. L’utilità non soltanto linguistica, ma anche storica e culturale delle carte geofonetiche fu subito evidente, perché le varianti dialettali della stessa parola erano anche la prova linguistica dell’esistenza di determinate istituzioni di lunga durata (feudi, regni, diocesi…): tramite la rappresentazione geografica delle varianti linguistiche si riusciva, quindi, a ricostruire l’azione della storia sulla comunicazione orale in un determinato territorio.

La prima motivazione fu sicuramente scientifica, ma poi gli atlanti furono visti anche come strumenti di conservazione di un immenso patrimonio dialettale minacciato di estinzione e di oblio dall’economia capitalistica supportata dalla politica di potenza degli stati nazionali.

La tecnica di Wenker fu perfezionata e applicata da Jules Gilliéron che, agli inizi del Novecento, nell’Atlas Linguistique de la France, pubblicò tutti i materiali raccolti, non soltanto le loro elaborazioni.

Fu poi la volta di Matteo Bartoli, allievo del linguista svizzero, che nel 191 bozzò un questionario per il progetto dell’Atlante Linguistico Italiano. Ma in Italia fra il dire e il fare c’è sempre di mezzo il mare, anche perché fra i linguisti si accese un lungo e polemico dibattito sul modo di procedere.

Bartoli ripropose il suo atlante subito dopo la prima guerra mondiale, ma seguirono altri cinque anni di disputa accademica, e il progetto poté iniziare a concretizzarsi a Gradisca d’Isonzo il 26 ottobre 1924, quando il Congresso della Società Filologica Friulana accettò di realizzare l’ALI (Atlante Linguistico Italiano) progettato dall’Università di Torino tramite il prof. Ugo Pellis, il “raccoglitore unico”, che era allora il suo Presidente. AtlanteLinguisticoFriuli.png

Atlante Linguistico Friuli

Che cos’è un atlante linguistico?

Un atlante linguistico è un archivio che contiene le risposte ottenute interrogando gli “informatori” delle località prescelte sulla base di determinati criteri (spesso piccoli centri isolati, e perciò più conservativi del linguaggio e delle tradizioni lavorative, religiose, familiari...): se rimane uno schedario è, naturalmente, di difficile consultazione. Se assume la forma di un libro contenente la rappresentazione cartografica delle informazioni raccolte “sul campo” la consultazione è di molto facilitata, ma, come vedremo, non proprio agevole.

Se si escludono i concetti astratti (l’intelligenza, la felicità, la malinconia...), a una parola corrisponde sempre un oggetto, ma le parole che lo indicano sono spesso diverse da luogo a luogo. L’aratro, ad esempio, è uno strumento che, se trainato, penetra nel suolo, lo apre e rovescia la terra smossa; ma poi si scopre che esistono aratri con ruote o senza ruote, di legno o di metallo, eccetera. Di qui la necessità di memorizzare la corrispondenza fra un certo tipo di aratro e la parola che localmente lo indica in un determinato giorno: e se per registrare la parola possono bastare l’orecchio del raccoglitore e la sua mano per la scrittura del suono su una carta, per memorizzare con precisione l’oggetto, simile ma non identico ad altri, ci vuole un disegno o una fotografia, eseguiti, dallo stesso linguista o da altra persona che lo accompagna.

Dopo il 1918 il primo che svolse inchieste in Friuli, una delle quali a Ronchis, fu Paul Scheuermeier, il raccoglitore dell’AIS (Atlante Italo-Svizzero) che viaggiava in compagnia di un disegnatore ma eseguiva in proprio fotografie. Ugo Pellis, che incontrò Scheuermeier a Trieste nell’aprile del 1922, ebbe modo di apprezzare l’efficacia delle immagini fotografiche in un’inchiesta linguistica, e volle a sua volta diventare “fotografo della parola”, secondo la geniale definizione di Manlio Michelutti, Presidente della Società Filologica Friulana negli anni Novanta: frequentò quindi il corso tenuto da Arnaldo Polacco nella sede dell’Istituto Fotografico Triestino e produsse per l’ALI (Atlante Linguistico Italiano) una straordinaria e preziosissima raccolta di immagini.

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Per l’ottavo Centenario del Serafico (1223-1226) L’iconografia mosaicata del Maestro spilimberghese Rino Pastorutti

Franca Mian

Nel 1260 il Capitolo di Narbona affidò alle sapienti cure del Ministro Generale dell’Ordine francescano Bonaventura da Bagnoregio (insigne metafisico, mistico, cattedratico) il compito non facile di scrivere la vita di S. Francesco. Lo scopo era quello di vagliare tutta la materia agiografica sorta attorno alla figura del Santo e alle interpretazioni, talvolta contraddittorie, dei suoi pronunciamenti e quindi dei suoi ideali.

La conseguenza più immediata fu la disposizione di sostituire tutte le biografie antecedenti con quella bonaventuriana, emessa dal Capitolo generale di Parigi del 1266.

Bonaventura era nato nel 1221, pertanto non aveva conosciuto Francesco (1182-1226). Quindi, per scriverne, volle documentarsi con esemplare precisione, visitando i luoghi francescani e interrogando tutti quelli che avevano conosciuto il Santo stimmatizzato, compreso il vecchissino Fra Egidio, forse autore dei Detti.

La biografia bonaventuriana risultò di altissimo livello 2 non solo sotto il profilo storico ma anche filosofico, teologico, mistico, psicologico, coronato dalla visita al monte de la Verna dove Francesco, secondo lo scrittore, divenne in tutto conforme a Cristo, un altro Cristo.

Già Tommaso da Celano aveva descritto la visione soprannaturale avuta in quel luogo (1224) dal Santo, dove ricevette le stimmate.

Mosaico emblema Ordine dei Frati minori

Ma nel capolavoro di agiografia medioevale che nacque da S. Bonaventura, troviamo una descrizione più compiutamente intima e perfetta: “Un mattino, all’appressarsi della festa dell’Esaltazione della Santa Croce 4 mentre pregava sul fianco del monte vide la figura come di un Serafino, con sei ali tanto luminose quanto infuocate, discendere dalla sublimità dei cieli: esso, con rapidissimo volo, tenendosi librato nell’aria, giunse vicino all’uomo di Dio, e allora apparve tra le sue ali l’effigie di un uomo crocifisso, che aveva mani e piedi stesi e confitti in croce. Due ali si alzavano sopra il suo capo, due si stendevano a volare e due velavano tutto il corpo… Scomparendo,la visione gli lasciò nel cuore un ardore mirabile e segni altrettanto meravigliosi lasciò impressi nella sua carne. Subito infatti nelle sue mani e nei suoi piedi incominciarono ad apparire segni di chiodi, come quelli che poco prima aveva osservato nell’immagine dell’uomo crocifisso”.

Le stimmate furono infatti l’ultimo, chiaro, palpabile segno d’una santità che aveva sempre avuto altrettanto evidenti manifestazioni esteriori. S.Bonaventura (come anche Tommaso da Celano, Dante), passando dalla terrena Passione del Figlio dell’Uomo a quella di Francesco,diede alle stimmate anche il nome comune e materiale di “sigillo”(ancorchè “sacro”). Con il sigillo infatti i Re e gli Imperatori autenticavano i loro decreti. Quindi con le stimmate il Re dei Re autenticò visibilmente il suo decreto sulla carità evangelica vissuta da Francesco, anche se nel Medio Evo i sigilli, recanti la figura dell’ “Agnus Dei”, erano tipici dei mercanti di lana, che li usavano a garanzia della bontà del loro prodotti, permettendone l’esportazione.

Le cinque stimmate costituirono pertanto, entro quest’ottica d’uso particolare, gli ultimi sigilli, l’ultima autenticazione alla lana francescana dell’”Agnus Dei”, impressa dall’infuocato Serafino plurialato al figlio di un Assisiate mercante di lana.

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Un nuovo progetto per la realizzazione di un Ospedale di comunità e Casa di comunità a Latisana

Enrico Fantin

La storia dell’Ospedale di Latisana, in particolare quella contemporanea, è travagliata da molteplici problemi soprattutto dovuti non solo all’imponente crisi economica mondiale che ha contagiato anche quella nazionale con drastici tagli alla spesa pubblica, ma dalle politiche regionali che hanno avuto occhi di riguardo a favore di altre strutture facenti parti della Unità sanitaria rompendo pertanto quegli equilibri di sicurezza che si erano creati e conquistati con professionalità nel passato.

Accorpamenti di reparti e riduzione del personale sembrano non siano la panacea giusta per uscire da questo tunnel interminabile.

Uno spiraglio però sembra venir incontro alla sanità del Latisanese con un nuovo progetto presentato ai primi di febbraio 2023, dal Presidente della Giunta Regionale Massimiliano Fedriga e dall’Assessore alla Salute Riccardo Riccardi, presso l’Ospedale di Latisana con la seguente nota apparsa sulla stampa:

“Al via il potenziamento del presidio ospedaliero di Latisana, anche con l’attivazione di una Tac definita altamente performante di ultima generazione. Il finanziamento regionale, in attuazione al Pnrr, è di oltre 21 milioni di euro. “L’intervento prevede l’attivazione di un ospedale di comunità e della casa della comunità nell’area del presidio ospedaliero di Latisana, con la realizzazione ex novo di un edificio che sorgerà al posto del padiglione vecchio, con la finalità di ospitare in maniera appropriata i servizi sanitari. I fondi a disposizione ammontano a 10 milioni di euro, di cui oltre 5,8 stanziati della Regione”, hanno spiegato Massimiliano Fedriga e Riccardo Riccardi.”

Si cercherà, pertanto, di stilare alcune note del progetto affinché siano alla portata e conoscenza dei cittadini gravitanti non solo nella Bassa friulana.

Or bene, per dar seguito a una parte del progetto, si dovrà demolire il corpo di fabbrica del Vecchio Ospedale, inaugurato nel 1912, ivi comprese le due ali laterali ed ad altri corpi più recenti.

Interno Chiesetta Ospedale Latisana

La Cappella dell’Ospedale

Nel progetto di massima, attorno a questo fabbricato principale, trovano collocazione ulteriori fabbricati minori, di un livello cui è prevista la demolizione. Tra questi si riconosce la cappella, collocata sul retro del fabbricato, il Dipartimento di Salute Mentale collocato ad est e un ulteriore volume sempre ad est che ospita i servizi dedicati alla Neuropsichiatria Infantile. Augurando che si trovi una adeguata soluzione per il mantenimento e salvare la sacra costruzione, aggiungiamo alcune note storiche affinché non vada dispersa la memoria.

Nel 1963 un comitato, del quale solerti animatori furono Francesco Zanelli, presidente del consiglio di amministrazione dell’ospedale, e suor Lea Andrich, prima infermiera chirurgica, promosse la costruzione di una nuova cappella, addossata al vecchio edificio ospedaliero, com’è ricordato dalla targa collocata in prossimità dell’accesso interno:

COMITATO ESECUTIVO CHE VOLLE / QUESTO TEMPIO E RACCOLSE I 7 MILIONI / DI OFF. PER LA SUA COSTRUZIONE ED / ABBELLIMENTO. / CAV. UFF. FRANCESCO ZANELLI / “ SUOR LEA ANDRICH / MARIO MATTASSI / BENEMERITI / ARCH. D.R LUCIANO VIGNADUZZO / GEOM. ADELMO SIVIERO / “ RAFFAELE COSTANTINI / SUOR ANNALIA GHISLOTTI.

Il 21 aprile 1963 fu posta la prima pietra, benedetta dal pievano Lionello Del Fabbro.

Questa moderna cappella, a cella quadrata semplice, con volta a quattro spioventi ed un campaniletto a vela, fu progettata dall’architetto Luciano Vignaduzzo e dal geometra Adelmo Siviero. Curata dalle benemerite suore fino al loro forzato ritiro avvenuto a fine agosto 1988, essa fu officiata regolarmente dal cappellano ospedaliero designato dall’arcivescovo.

La cappella è adornata con alcune opere di notevole pregio.

Accanto all’altare è collocata una policroma e delicata effigie lignea (alta 135 cm) raffigurante a tutto tondo l’Immacolata Concezione eseguita verso il 1910 dal sacerdote scultore Celso Costantini di Castions di Zoppola. Al sacro simulacro, rifiorito dopo un radicale restauro eseguito nel 1991 da Maria Raffaella Turco, è stata impartita la solenne benedizione dall’arcivescovo di Udine monsignor Alfredo Battisti il 16 febbraio 1992.

Una suggestiva tela (cm 70 x 90) rappresenta la Madonna della Cintura. È del tutto verosimile che questo quadro sia proprio la pala commissionata nel 1599 da donna Marietta de Benedetti per l’omonimo altare della scomparsa chiesa agostiniana di Sant’Antonio Abate, curato dalla confraternita dei cinturati. Esso dovrebbe quindi essere pervenuto nell’attuale sede seguendo nei secoli XIX e XX i trasferimenti del civico ospedale, al cui personale d’assistenza religiosa era stato consegnato forse dal pievano di Latisana. Un accurato restauro fu eseguito nel 1995 da M. A. Zalbidea Munoz ha restituito una eccellente lettura cromatica all’opera, grazie anche all’intervento della Soprintendenza per i beni ambientali architettonici, archeologici artistici e storici del Friuli Venezia Giulia, Laboratorio di Restauro di Udine.

Nell’anno 1995 è stato rifatto il pavimento della cappella, usufruendo di un contributo concesso dalla Banca Popolare FriulAdria di Latisana.

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Francesco dall’Ongaro in casa Valussi a Talmassons

Roberto Tirelli

“Mi innamorai delle vaghe e verdi praterie che di là di digradano fino al mare”

Nel contesto di quelle che furono le passioni romantico-risorgimentali, alle quali del tutto furono estranee le plebi rurali friulane e, invece, ne fu coinvolta la nuova borghesia, vi furono dei personaggi di rilievo storico letterario, fatta eccezione per Ippolito Nievo, al massimo relegati a dare il nome a qualche via. Di loro se ne sa poco o nulla a livello di cultura popolare e tantomeno di quella scolastica, essendo stata prevalente la retorica su quegli avvenimenti rispetto alla creatività e all’entusiasmo di giovani talenti pronti anche a morire per le loro idealità. Il poeta e giornalista Francesco Dall’Ongaro (Mansuè 1808-Napoli 1873) che quest’anno viene inserito fra gli anniversari oggetto d’attenzione per la “Setemane de culture furlane” della Società Filologica, pur essendo di origini familiari friulane è conosciuto in Friuli soprattutto per la sua amicizia, colleganza e parentela con Pacifico Valussi, il più illustre cittadino di Talmassons.

Questo rapporto fra i due, nato a Venezia e poi proseguito per l’intera vita di entrambi, ha portato più volte Francesco a Talmassons ove oltre alla sorella Teresa ed al cognato Pacifico poteva contare sull’amicizia con don Giuseppe e con tutta la famiglia Valussi.

Tale frequentazione, anche perché collocata fra lunghi periodi di lontananza, è poco nota dato che avviene in due situazioni diverse: dal 1839 al 1847 mentre Francesco risiede a Trieste quale responsabile della rivista letteraria “Favilla” e dal 1849 al 1859 alternando periodi di residenza in casa della sorella Maria e periodi di vero e proprio esilio in varie città italiane e d’Europa. Nel primo caso le visite sono brevi, mentre nel secondo sono della durata di qualche giorno.

Allora Talmassons è ancora il paese rurale che il Valussi descrive, con la maggior parte dei suoi abitanti dediti all’agricoltura e, per il resto, molto devoti religiosamente, benchè non manchino dei fermenti “liberali” tant’è che è uno dei pochi paesi della pianura ad esprimere un garibaldino nell’impresa dei Mille: Valentino Cossio (1843).

Dall’ Ongaro non è persona dalle mezze misure perché è disposto a tutto sacrificare per i propri ideali e si esprime con una incessante produzione di scritti il cui filo conduttore è il patriottismo e sono le idee liberali.

“Nel piccolo regno degli affetti domestici Francesco Dall Ongaro fu veramente un integro esempio di rettitudine e di bontà”. A Talmassons con la sorella Teresa ed i due nipoti nonché con il cognato amico Pacifico si sente davvero a casa. È particolarmente legato alla sorella che ha saputo tenacemente mantenere unita una famiglia che le disavventure del marito avrebbero potuto porre in difficoltà. Talora Francesco si annuncia con una lunga lettera, talora capita all’improvviso, accolto sempre volentieri dai due coniugi “Gli sposi mi paiono felici -annota- che Dio li benedica e li conservi sempre così”. E si preoccupa del cognato che a Talmassons si sente quasi in esilio ironizzando “si è detto a piantar cavoli”.

All’epoca il paese è tranquillo, per nulla agitato persino dai moti del ’48. La sua guardia civica di fronte agli austriaci che ritornano se la dà a gambe levate come altrove. Francesco non comprende questo poco se non nullo entusiasmo alla idea di un’Italia unita e ritiene sia per il fatto che i contadini non hanno modo di conoscere la cultura, specie artistica della penisola.

“Egli era democratico popolare anche nelle relazioni di parentado si sentiva molto sviluppati i visceri della paternità e ad ogni nuovo parente che s’aggiungesse alla sua già numerosa parentela gli pareva di crearsi un nuovo e grato obbligo che lo stringesse alla vita. Come egli aprivasi con largo animo agli amici accettando con generosità non comune tra i letterati in fama anco i giovani ingegni nella sua famigliarità così lieto e non sazio degli affetti che lo legavano alla propria famiglia accoglieva facilmente alle intime confidenze gli amici e le amiche disposti e disposte ad alcuna simpatia verso di lui”.

Anche con il paese trova un legame fatto di curiosità per le vecchie storie che poi trasforma in pagine letterarie, con la curiosità di chi vuol capire la vita agreste e cerca un contatto con la natura e con le persone semplici. Talmassons diventa un luogo di affetti ove gli piace ritornare a sentire l’aria di quel Friuli in larga parte rimasto quello dei tempi antichi con i suoi valori e costumi tradizionali, espressione di una cultura vera ed originale.

Le prime volte a venirci è con o per il fratello di Pacifico, don Giuseppe, amico delle giornate veneziane con il quale intrattiene conversazioni amene non sempre consone allo stato sacerdotale.

Casa Valussi è una casa accogliente di una famiglia che gode di un solido benessere economico, ma Francesco brevemente coglie questa pace agreste perché si tormenta sulle considerazioni riguardanti il presente e si proietta sul futuro. Certamente gran parte delle persone che incontra nelle sue passeggiate solitarie o con i fratelli Valussi sono piuttosto ispirate da sentimenti conservatori e dunque si deve interrogare sulla mancata presa delle idee irredentiste sui paesani. Francesco Dall’Ongaro è a sua volta un fervente ammiratore delle idee di Mazzini in senso repubblicano, mentre Pacifico Valussi, più pragmatico, accetterebbe anche i Savoia pur di raggiungere l’obiettivo della unità italiana. Questo è uno degli argomenti politici che li appassiona nelle loro passeggiate nelle campagne attorno a Talmassons, ma non è il principale. Riferisce Pacifico, infatti, che entrambi cui si unisce spesso anche don Giuseppe, si infiammano per delle discussioni sull’arte. Francesco s’accalora ritenendo che l’arte debba essere portata al popolo e non rimanere chiusa all’interno di una ristretta cerchia di intellettuali.

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Depredazioni e riflessi onomastici

Mauro Buligatto

La terminologia legata alle rapine marittime reca alcune imprecisioni, a proposito dei soggetti praticanti simili attività. Delle approssimazioni che l’uso comune della lingua naturalmente può comportare. Nei casi qui affrontati si potranno notare le differenze etimologiche esistenti fra i vari lemmi anche se, per un accomunato contesto, hanno assunto correntemente il valore di sinonimi. A proposito di pirati l’immaginario collettivo è stato quanto mai intriso dalla letteratura prima e dalla filmografia poi. Entrambe si sono ispirate al periodo d’oro del brigantaggio in mare, fra i secoli XVI e XIX.

In modo diverso si può affermare che questa attività vide la luce nell’istante in cui l’uomo ebbe la possibilità e il coraggio di prendere il mare. Esistono testimonianze antico-egizie, ascrivibili al XIV secolo a.C., che narrano delle scorrerie lungo le rotte del Mediterraneo. Tale pratica è riportata, in modo definito, da Omero nelle sue Iliade e Odissea. Alessandro Magno, che nel IV secolo a.C. si trovò impegnato nella campagna militare persiana, identificò nella pirateria mediterranea una grave minaccia per la sussistenza del suo esercito. Pure Roma dovette rapportarsi con gli attacchi e i saccheggi dei cilici transitando da un’iniziale accondiscendenza, peraltro frutto di risvolti utilitaristici, a un’azione militare diretta al contrasto. Si consideri che fra le vittime ci fu anche Gaio Giulio Cesare, il quale subì un doppio rapimento . Ma avvenne un episodio di gran portata che indusse Roma a un’azione più radicale.

Il saccheggio di Ostia, del 67 a.C., fu infatti la leva motivazionale che portò il governo all’emissione di un impianto normativo speciale, la Lex Gabinia, promossa appunto dal console Aulo Gabinio. Questa legge fruttò al delegato generale, Gneo Pompeo Magno, i cogrui mezzi per debellare i principali annidamenti del mediterraneo 8 . Riferendoci ora alla campagna militare romana in Gallia Cisalpina, svolta fra il 225 e il 222, riportiamo che gl’Istri si dimostrarono attivi nell’assaltare i convogli marittimi con le sussistenze destinate ai reparti ivi operanti. Nel 181 a.C. Aquileia venne dedotta a colonia romana. In ragione di questo nuovo assetto politico territoriale la predazione marittima per mano degli istro-illirici, venne contenuta nel settore nord-orientale del Mare Nostrum 10 . Se per le epoche protostorica e antica la supremazia di Roma sull’Adriatico determinò una momentanea stasi della pirateria, nel periodo compreso dall’VIII al XV secolo, precedente alla leadership uscocca, le razzie nautiche rappresentarono una nuova criticità nel Golfo di Venezia. Le spedizioni mercantili marciane e italiche, così come le cittadine rivierasche, subirono ripetuti attacchi dai pirati dalmati di Narenta e di Almissa.

Dal Quattrocento al Cinquecento i turchi conseguirono massima espansione nell’areale balcanico. In tale processo giunsero alla capitale bizantina di Costantinopoli (1453), alla Bosnia, all’Albania e, in finale, all’Erzegovina nel 1482. Di solito le loro campagne militari si distinguevano per tre momenti. Il primo di questi, affidato a truppe di incursori irregolari, era rappresentato da razzie, sequestri e distruzioni.

Non a caso tali protagonisti presero il nome di akinci/aquïnği “i predatori”: dei maestri per le loro tecniche fulminee d’aggressione e saccheggio. Il bacino di reclutamento era formato da balcanici presi a prestito dal mondo rurale. Dei sottomessi anche all’imposizione dell’arruolamento in caso di chiamata, da parte della signoria feudale ottomana. La cosiddetta akin “razzia” inflitta regolarmente in finale di sortita, era un pattuito mezzo di sostentamento. L’azione lampo quindi, propria di queste milizie di frontiera, fu la principale arma per le prese degli avamposti. Scenari di questo tipo si possono cogliere all’interno delle cosiddette guerre turco-veneziane, ripetutesi fra i secoli XV e XVIII. Verso gli ultimi anni del primo conflitto, siamo nel 1472, le aggressioni si spinsero ulteriormente a nord-ovest, fino a giungere in territorio friulano.

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