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copertina numero 81 la bassa

la bassa/81

anno XLII, n. 81, dicembre 2020

Estratti di
articoli e saggi
della nostra rivista

In copertina:
Particolare della carta
Fori Iulii accurata descriptio
dal “Theatrum Orbis Terarum” di Abraham Ortelius (1527 - 1598)
Anversa 1573.
Latisana, luglio 1945. Ripristino degli argini sul Tagliamento danneggiati dai bombardamenti aerei della Seconda Guerra Mondiale. (foto proveniente dalla famiglia Giacomo Cicuttin, allora guardia del Genio Civile di Udine)

Sommario

  • ROBERTO TIRELLI
    L’ambiente naturale della Bassa friulana per un nuovo Umanesimo
  • GIANNI STRASIOTTO
    Cooperazione e Mutualità: la nascita delle Casse Rurali
  • ENRICO FANTIN
    Papa Giovanni XXIII nei ricordi di Guido Gusso, suo aiutante di camera e decano della sala pontificia
  • BENVENUTO CASTELLARIN
    Avete visto l’anticristo a passare con le dalmine per Canussio? Quando la “vox populi” ha qualche fondamento storico
  • SERGIO GENTILINI
    L’opera del pittore Antonio Gentilini nelle chiese di Precenicco, Titiano e Palazzolo dello Stella
  • ENRICO FANTIN
    Il Palazzo che fu della dinastia del doge Andrea Vendramin, a Latisana, distrutto dai bombardamenti aerei nella Seconda Guerra Mondiale
  • GIANFRANCO ELLERO
    Un Paradiso perduto: Fraforeano
  • CARMELA DE CARO
    Sulle orme di Ippolito Nievo tra realtà, mito e fiaba
  • MARIA TERESA CORSO
    Elementi medievali a Marano: il sigillo, il graffito, la Croce e le pàtere
  • GIOVANNI SANTORO
    Il prezioso archivio fotografico del Genio Civile conservato nel magazzino idraulico di Pertegada donato al Craf di Spilimbergo
  • RENZO CASASOLA
    I boschi Coda e Mulvis del Nobil Huomo Lodovico Manin ex comunali di Muzzana. Note storiche, etimologiche e antropologiche
  • NELLO GOBBATO
    I cento anni del monumento ai caduti e reduci di Cesarolo
  • PAOLO GREGORATTI
    Dalle memorie del soldato Vittorio Gregoratti. Dall’Abissinia allo stamlager IX-C in Germania: un impegno reso alla Patria per quindici anni (1929-1945)
  • ROBERTO TIRELLI
    C’è un virus peggiore del COVIC 19?
  • NELLO GOBBATO
    Progetto Primis: turismo e scoperta del territorio
  • MARIA TERESA CORSO
    La famiglia Massa, medici e commercianti a Marano
  • ENRICO FANTIN
    Memorie di Guerra 1940 - 1946: Albino Guerin. Da Gradisca d’Isonzo per il fronte Greco/Albanese e internato nei lager in Germania

L’ambiente naturale della Bassa friulana per un nuovo Umanesimo

Roberto Tirelli

Nel secolo XV il movimento culturale che, in seguito, prenderà il nome di Umanesimo segnò storicamente il ritorno della centralità della persona umana e questa rinnovata attenzione ebbe ad aprire, come ci insegnarono a scuola, alla stagione del Rinascimento.

L’inattesa e singolare esperienza della pandemia da virus Covid 19, ha reso ancor più evidente la necessità di ripensare ai valori umani costruendo un rinnovato umanesimo capace di rafforzare i legami con l’ambiente naturale. In effetti stiamo pagando l’aver trascurato eccessivamente la nostra appartenenza all’insieme degli esseri viventi e lo dimostra proprio la fragilità nei confronti di un virus che ci ha costretti a modificare modo di pensare ed abitudini. L’unica via d’uscita è tornare a considerare il valore della natura, senza evidentemente ritornare allo stato di natura come vorrebbero alcuni.

La salvaguardia dell’ambiente naturale trova un particolare significato nella Bassa friulana ove le situazioni sono in un sempre più precario equilibrio. Prendersi cura della natura è prendersi cura dell’uomo ed è questo il senso del nuovo umanesimo atteso oggi. L’attenzione al territorio di concentra soprattutto su un protagonista, il fiume Tagliamento, ma anche su tutto il sistema delle acque e delle terre che appartengono ad un vasto tratto di pianura e richiedono un cambiamento in grado di rimuovere ogni aspetto negativo, o, almeno, di attenuare gli effetti della esagerata antropizzazione a base di asfalto, cemento e chimica.

Oggi anche noi, senza le certezze sulle quali abbiamo appoggiato la nostra esistenza, sentiamo il bisogno di un nuovo Umanesimo in grado di condurci nel XXI secolo.

Il modello passato, fondato sui classici, riguardò poche persone sensibili ed istruite, oggi, però, si tratta di far partecipare l’intera società portando l’attenzione su ciò che abbiamo troppo trascurato presi dall’ansia del progresso non tenendo conto che le risorse si stanno esaurendo e inquinando.

Questa scelta vale particolarmente per la Bassa friulana ove gli equilibri uomo-natura sono particolarmente fragili. Ed infatti, nel pur breve tempo della “reclusione umana” dovuta al virus, la natura è parsa riprendersi spazio sia come fauna sia come flora, il che ci porta a riflettere che vi è la possibilità di affermare un nuovo Umanesimo riprendendo un rapporto positivo con la terra e rinnovando il legame che ad essa ci unisce. La globalizzazione delle problematiche ecologiche può spesso ridursi in retorica, mentre l’ambiente in cui si vive è di diretta sensibilità nostra per cui possiamo concretamente fare qualcosa di buono e non demandare agli altri.

Il virus nel suo essere infinitamente piccolo ci ha ricordato che nel bene o nel male la natura ha sempre la meglio sull’uomo se l’uomo non rispetta se stesso e non la rispetta. Nell’ambiente naturale anche ciò che sembra negativo ha la sua importanza perché quel che conta è la varietà delle specie come per l’umanità conta la varietà dei modi di pensare e di essere. Le monoculture e le dittature dimostrano i loro limiti. C’è un detto comune che non vi possa essere un collegamento fra natura e cultura, ma abbiamo sperimentato in questi anni di attività associativa che nella Bassa friulana ciò è stato possibile attraverso la maggior parte delle nostre ricerche e pubblicazioni. Il rapporto può essere migliorato se lo sviluppo non viene fermato, ma assume un ritmo diverso, quello di un nuovo umanesimo. Chi predica la “decrescita” a favore della natura compie un errore poiché solo una crescita sotto il segno dell’Umanesimo permette di trovare risorse e motivazioni per tutelare i beni ambientali.

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Cooperazione e Mutualità: la nascita delle Casse Rurali

Gianni Strasiotto
Manuale Cassa Rurale in Italia

Sono passati 137 anni dalla costituzione della prima Cassa Rurale italiana a Loreggia (1883) e 111 anni della costituzione dell’Associazione italiana delle cooperative bancarie di natura mutualistica (1909). Nel 1948 entrava in vigore la Costituzione Italiana, che nell’art. 45 cita: “La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La Legge ne promuove e favorisce, l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità”, frutto di un intenso confronto tra diverse ispirazioni e culture - liberale, socialista, cattolica - rappresentate nell’assemblea costituente. Cooperazione e Mutualità sono principi costituzionali nati dall’esperienza di comunità capaci di accompagnare e sostenere la crescita e la coesione sociale all’interno delle economie dei territori.

Nate a iniziare dal 1883 con il nome di “Casse di Prestiti”, vengono subito ritenute uno strano paradosso economico, “una concezione di illusi, una società di credito priva di capitali, un’associazione di ignoti, di minimi possidenti e agricoltori isolati nelle campagne e tra i monti”, e anche bollate come “banche dei poveri”, insomma un’anomalia, un organismo che non rispetta le più elementari regole per un’impresa economica. L’idea vincente, molto ardita, fu quella di trasformare gli stessi “bisognosi del credito” in “banchieri”. L’ambito di attività di queste nuove banche è molto limitato per territorio e per operatività.

Nel marzo 1897 avevano raggiunto ufficialmente le 904 unità, ma almeno alcune decine, fondate fin dagli ultimi mesi del 1896, non erano comprese nel numero, non essendo ancora stata pubblicata la loro istituzione nel bollettino del Ministero. La modifica del nome in “Cassa Rurale” avviene con molta gradualità, a iniziare dal 1896, e solo qualche decennio dopo il nome sarà affiancato da “ed Artigiana”. Dal 1898 inizia la repressione dei governi, proseguita durante il fascismo con atti intimidatori e violenze. Il Testo Unico delle Casse Rurali e Artigiane T.U.C.R.A. entrato in vigore nel 1937 non favorisce l’espansione numerica delle Casse che, dopo la caduta del regime fascista, risultano notevolmente diminuite passando da 3.540 nel 1922, anno in cui raggiunsero la massima diffusione, a 804 nel 1947.

Riportiamo alcune note sui motivi della loro costituzione, con qualche cenno sulle figure dei “pionieri”, non adeguatamente ricordati dalle comunità dove hanno operato con generosità e sacrificio, o del tutto dimenticati dai successori: nemmeno una targa ricordo, l’intitolazione di una struttura, di una sala riunioni, o altro. Si tratta di uomini che hanno lasciato tante testimonianze del difficile processo di realizzazione e, il più delle volte, sono sacerdoti che hanno guidato le comunità loro affidate e dato vita a queste istituzioni - giunte fino ai nostri giorni - incidendo profondamente nel tessuto sociale ed economico.

Le Casse sorgono dalla spinta di trovare, per la prima volta, una qualsiasi forma di credito per le classi più povere, affrontare le urgenti necessità, una malattia o una particolare emergenza, per difenderle dalla voracità dell’usura e ridare dignità a chi non aveva accesso al credito, educando a forme di partecipazione in un terreno sociale fragile e compromesso.

La politica delle banche, comunque non presenti nelle piccole località, non contemplava la concessione di prestiti modesti e di breve durata, anche se in presenza di sufficienti garanzie. Le Banche Popolari - nate in Germania a metà dell’Ottocento e in Italia dal 1864 - seppur destinate ai piccoli risparmiatori, non concedono piccoli prestiti per un tempo limitato. Da sempre quindi, nelle località di campagna, si ricorreva all’usuraio. Frequenti sono i casi di strozzinaggio, con interessi giunti fino al 100% e oltre e spesso vengono rilasciate delle cambiali con data di scadenza in bianco, usate poi come ricatto. Succede così che, nell’ impossibilità di saldare alla scadenza un debito di una certa rilevanza, un malinteso senso dell’onore porti un capofamiglia a togliersi la vita. Per combattere l’usura, già nel Quattrocento, nei maggiori centri urbani nascono i Monti di Pietà, ideati dal francescano Bernardino da Feltre - abilissimo predicatore - unicamente con l’intento di sottrarre le persone, con urgenti necessità di un po’ di denaro, dalla dipendenza degli usurai, ma una famiglia di contadini dell’800 difficilmente aveva un oggetto da portare in pegno al Banco, per giunta ubicato in località lontane. La loro presenza, in ogni caso, in un’economia che prende sempre più i connotati di un moderno capitalismo, servì a correggere gli effetti negativi di una società che per il benessere di pochi privilegiati, esigeva il sacrificio di molti.

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Papa Giovanni XXIII nei ricordi di Guido Gusso, suo aiutante di camera e decano della sala pontificia

Enrico Fantin
Angelo Giuseppe Roncalli

Di ritorno da un pellegrinaggio a Fatima, l’8 agosto 2001, in attesa della coincidenza aerea a Fiumicino per Venezia, constatata l’abbondante pausa oraria a disposizione e visto altresì l’occasione di essere a Roma, decisi di fare una visita in San Pietro assieme a mia moglie, all’accompagnatore don Cesare Stecca e un altro conoscente.

Prendemmo un taxi e in un baleno arivammo in Vaticano. Mentre il sacerdote doveva sbrigare alcune incombenze negli uffici dell’Opera Romana Pellegrinaggi noi entrammo nella basilica di San Pietro..

Dopo alcuni minuti, mentre eravamo davanti ad un altare, si fermarono quattro sanpietrini addetti alla Basilica spingenti un carrello con sopra l’urna di una salma imbalsamata.

Era la salma del Santo Padre Giovanni XXIII: il papa che mi è rimasto sempre nel cuore.

Con grande meraviglia e commozione assistemmo alla deposizione del corpo nello spazio creato alla base di quell’altare: una coincidenza straordinaria anche per la fortuna di aver scattato alcune foto dell’evento.

Ma perché questo preambolo?

Non capita tutti i giorni di trovarsi a tu per tu con una persona che nella vita ha avuto il pregio e l’onore di stare accanto ad un Papa, ancor meno capita di conoscere un testimone che ha vissuto momenti importanti pubblici e privati di un santo.

Il papa in questione è proprio il Santo Giovanni XXIII e la persona che lo ha conosciuto da vicino, Guido Gusso, Aiutante di Camera di Sua Santità. 1

La scoperta di questo personaggio è avvenuto attraverso la pubblicazione del suo libro “Il Santo che ha cambiato la mia vita. Memorie sul Patriarca di Venezia - Papa Giovanni XXIII” e in diverse apparizioni televisive: RAI “La Grande Storia”e Tv 2000.

Un primo incontro è avvenuto alcuni anni fa nella sua casa di Caorle, nel 2017, mentre era in ferie, grazie all’amico Gino Gusso che mi ha messo in contatto.

Guido, infatti, in estate lascia Roma e il Vaticano per tornare nella natia Caorle alla quale è sempre rimasto profondamente legato.

Ed è stato proprio dalla curiosità e dalla lettura del libro incontrare quella straordinaria persona.

Nelle pagine si snodano poi i racconti con diverse personalità di tutto il mondo, le feste liturgiche più importanti, le vacanze a Castel Gandolfo, le udienze. Si sofferma anche, in più riprese, a dettagli che rimarcano l’attenzione del Pontefice per i dipendenti vaticani e le loro condizioni di vita. Velate di tristezza e commozione sono le pagine finali del libro. Ma prima di entrare in qualche dettaglio mi fa piacere riportare alcune righe stilate dal padre Carmelitano Bruno Secondin 2 nella prefazione del volume.

Di Papa Giovanni XXIII, il famoso “papa buono”, si sono scritte tante cose, anche troppe. La sua vita sembra non aver altro di nuovo da offrire alla ricerca degli studiosi e alla simpatia dei devoti. Ora poiché anche le indagini per farlo santo si sono concluse - e si sa che sono sempre processi rigorosi e minuziosi - ed è salito alla gloria del Bernini, tutto è alla luce per gli storici. Eppure chi legge queste memorie di Guido Gusso - dei Santamore di Caorle, cittadina in provincia di Venezia - per una decina d’anni a fianco di Angelo Giuseppe Roncalli, prima a Venezia nel patriarcato e poi a Roma in Vaticano, come cameriere, aiutante di camera e perfino autista - scoprirà un mondo nuovo. Nessuna somiglianza con il famoso maggiordomo “Paoletto”, trafugatore di documenti riservati e al centro del primo processo Vatileaks. Ma anzi proprio da questa testimonianza esce fuori l’onestà a tutto campo di un vero “maggiordomo”, un senso di fede rocciosa e di vera autenticità di un galantuomo. E più santamente “umana” appare la figura di Giovanni XXIII, arricchita di particolari inediti, ma graziosissimi. Ed è luminosa la fisionomia non solo di Guido Gusso e dei suoi numerosi fratelli, ma anche quella della sua sposa, Antonia Marin (soprannome di famiglia: Magari): entrambi con una ramificazione familiare di preti e suore.

...Leggere questa “avventura”- lui la chiama “piccola testimonianza” – scritta con stile fresco e sorprendente abilità plastica – non per nulla Guido Gusso è anche pittore e scultore – mi ha fatto tanto piacere. Mi ha riaperto storie antiche che vagamente ricordavo. Ma anche mi ha fatto respirare aria sana e mi ha fatto capire come il conservare l’umanità più genuina cioè il senso umano delle cose, è un dono di grazia, è una sfida oggi indispensabile davanti a certi mondi artefatti e ridotti a sceneggiata senz’anima. Il cenno a quel famoso discorso serale dalla finestra, con l’invito a portare una “carezza del Papa ai bambini”, chiude la narrazione. Ma è anche, forse, il succo più vero di tutto il racconto. Anche Guido Gusso nel suo lungo narrare è come se ci avesse dato una “carezza”, prolungata e variegata nelle motivazioni. Resta in fondo al cuore un senso di bello e di pace.

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Avete visto l’anticristo a passare con le dalmine per Canussio?
Quando la “vox populi” ha qualche fondamento storico

Benvenuto Castellarin
Papa Gregorio XII

Fin da bambino sentivo i miei vecchi che dicevano questa frase: Avete visto l’anticristo a passare con le dalmine per Canussio? Alla domanda che cosa significasse, mi rispondevano: “Non sappiamo, l’abbiamo sentita anche noi dai nostri vecchi”. Già allora pensavo che non fosse la solita frase proverbiale e moralistica, doveva avere un fondamento più profondo: quell’anticristo faceva riferimento all’Anticristo dell’Apocalisse? Non credo, perché calzava le dalmine (sorta di zoccoli di legno) e poi cosa centrava Canussio, come frazione di Varmo? Ad ogni modo, la trascrissi e la misi nel cassetto, in attesa di tempi migliori.

Di recente, consultando il volume di Stefania Miotto La chiesetta venuta dal fiume, nel capitolo riguardante l’antipapa Gregorio XII «Et recessit de Portu Latisane cum maximo dubio» papa Gregorio XII nella Terra della Tisana, pp.17-21, dove elenca le varie fonti documentarie sulla precipitosa fuga di questo pontefice da Cividale del Friuli, sua aggressione, e dipartita, vi è una testimonianza orale raccolta da don Gilberto Presacco negli anni ’90 del Novecento a Belgrado di Varmo «qui il papa si sia travestito con abiti di un altro, ma che il suo tesoro sia andato perduto, inghiottito appunto dalle olle di Belgrado».

La seconda testimonianza fa uno specifico riferimento a un papa che si è travestito e che ha perduto il suo tesoro nelle campagne di Belgrado mentre la prima è una domanda, che sarebbe potuta essere posta da coloro che, avendo scoperto l’inganno, stavano ancora cercando l’anticristo che dovevano realmente arrestare. Collegando le due testimonianze orali non è stato difficile risalire a un fatto storico realmente accaduto in Friuli nel 1409 quando nel settembre di quell’anno avvenne la fuga precipitosa da Cividale del Friuli di un papa-antipapa, Gregorio XII.

L’anticristo
Gregorio XII. Era nato a Venezia nel 1335 con il nome di Angelo Correr, venne eletto papa a Roma nel 1406 (aveva 71 anni) contrapposto a Benedetto XIII che, per effetto dello Scisma d’Occidente, era stato invece eletto dal collegio cardinalizio di Avignone. I cardinali delle due fazioni giurarono che se entrambi avessero rinunciato all’incarico ci sarebbe stata una nuova elezione che avrebbe posto fine allo scisma.

I due pontefici avviarono delle timide trattative e decisero di incontrarsi a Savona. Tuttavia, mentre Benedetto si trova a Portovenere e Gregorio a Lucca, per timore di essere arrestati dalle opposte fazioni fecero fallire la trattativa prima che questa nascesse.

Senza l’approvazione dei due pontefici, i cardinali delle due fazioni convocarono un Concilio generale a Pisa, al quale però i due papi non si presentarono e furono deposti entrambi come scismatici, eretici e spergiuri, eleggendo, il 5 giugno 1409 un nuovo papa che prese il nome di Alessandro V. Papa Gregorio però non cedette. Dopo aver ordinato altri dieci cardinali, convocò un nuovo Concilio a Cividale del Friuli in cui dichiarò decaduti sia Alessandro V sia Benedetto XIII, accusandoli di essere spergiuri, scismatici e devastatori della Chiesa: l’intricata e devastante situazione che si trovava la Chiesa Cattolica Romana di allora sarà risolta con il Concilio di Costanza (1414-1418) che ottenne le dimissioni di papa Gregorio XII e depose gli altri contendenti eleggendo papa Martino V nel 1417 che porrà fine allo scisma iniziato nel 1378.

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L’opera del pittore Antonio Gentilini nelle chiese di Precenicco, Titiano e Palazzolo dello Stella (*)

Sergio Gentilini
Sergio Gentilini

Scrivo questa nota a ricordo di mio padre Antonio Gentilini (1908 - 1977) su invito del signor Enrico Fantin, a seguito di un cordiale dialogo tra noi intercorso.

Mio padre dunque, che nel corso della sua vita ha “operato” con decorazioni e restauri nelle Chiese a Precenicco, Titiano e Palazzolo dello Stella: tre delle tante (una cinquantina) in Friuli e altrove, molte delle quali verranno poi gravemente lesionate o distrutte dal terremoto del 1976. E qui ricordo almeno Pavia di Udine e il Santuario di Tricesimo e quello di Castelmonte.1

Qualche dato: Antonio Gentilini nasce a Moimacco (Udine) il 28.4.1908 e la sua vita è interamente dedicata alla decorazione e al restauro, e nel tempo libero anche alla pittura di cavalletto (suoi temi preferiti, il paesaggio friulano e la natura morta): la sua formazione è pressoché autodidatta, salvo qualche corso serale tenuto dal prof. Giulio De Vecchi (uno dei maggiori esponenti dell’alta Scuola veneta), ottenendo diversi primi Premi di merito nel disegno e nella decorazione.

Nel 1930 dipinge ‘la Risurrezione’, un affresco di ben 7 m. x 3 m. nel soffitto della chiesa di Ciseriis di Tarcento (UD). (dov’è parroco don Onorio, suo zio) poco dopo il rientro dal servizio militare e quest’opera, la sua prima a carattere religioso verrà molto apprezzata e lo farà ‘conoscere’ in campo artistico, talché la Curia udinese in futuro lo inviterà o lo raccomanderà per ogni eventuale necessità di decorazione o restauro nelle chiese in Friuli.

Quando mio padre ‘lavorava’ lontano da casa, veniva spesso ospitato in canonica, e nel periodo estivo (al termine della scuola) mi portava con sé, insegnandomi e facendosi aiutare in qualche lavoretto: ed è in queste occasioni ‘estive’ che ho potuto conoscere diversi Sacerdoti, come ad esempio don Turribio Pertoldi a Precenicco; e a Palazzolo dello Stella don Luigi Milocco, e don Tarcisio Forte e monsignor Riccardo Della Rovere (e la sua Mamma, piccolina ma tanto dolce e simpaticissima).

Ed ora ecco i suoi ‘interventi nelle chiese, a Precenicco, a Titiano e a Palazzolo dello Stella.

Precenicco
Decorata la chiesa (restaurata nell’Anno Santo 1983), come testimonia il parroco don Turribio Pertoldi, il cui nome compare, a memoria, nelle pagine del Vangelo dell’Evangelista san Giovanni ritratto nel soffitto con l’aquila, mentre nel cartiglio dell’Evangelista san Marco, accanto al leone, si nota la scritta “pittori Gentilini e Blasig Cividale – restaurato 1950” (il cividalese Blasig, era l’aiutante di mio padre) e di questo restauro degli Evangelisti ne parla anche Titta Altan nel suo volume ‘Precenicco’ 1992. Da notare poi la parete dietro l’altare interamente decorata con un simbolico intreccio geometrico (di cui conservo lo spolvero originale) sotto il Crocifisso, che ricorda la corona di spine; poi sempre in coro, in alto sopra l’altare, dipinti circa 45 ‘quadrati’ in tre file parallele, nell’arco della volta; inoltre, l’intervento nei due soffitti laterali che presentavano un grande ovale con al centro la figura dell’Agnello da cui partivano molti raggi, mentre l’altro ovale presentava un calice con due pavoni che beccavano l’uva, e due spighe sotto il calice: ambedue attaccati e rovinati dall’umidità. Sulle colonne laterali del coro, una lunga decorazione che dal basso sale verso l’alto, con linee incrocianti e all’interno l’immagine di una rosa: caratteristica dell’opera decorativa di mio padre, perché eseguita a mano usando la spugna: un lavoro faticoso e difficile, ma che alla fine offre un equilibro tonale, tepido e delicato.

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Il Palazzo che fu della dinastia del doge Andrea Vendramin,
a Latisana, distrutto dai bombardamenti aerei nella Seconda Guerra Mondiale

Enrico Fantin

Latisana, seppur colpita da incursioni aeree nemiche durante la Prima Guerra Mondiale e la sua devastazione durante l’occupazione austro-ungarica, aveva conservato i palazzi veneziani costruiti nel centro storico dalla nobiltà della Serenissima.

Fatali sono stati invece i ripetuti micidiali bombardamenti aerei alleati nel 1944-45 che oltre ad aver procurato la morte di molti civili hanno distrutto l’assetto urbanistico cittadino facendo rovinare al suolo gran parte di quei palazzi storici signorili.

Fra questi il Palazzo Vendramin1, una delle dimore più imponenti e sontuose della terraferma veneziana, situato nell’odierna piazza Indipendenza e non più ricostruito, sulla cui aerea ai nostri giorni, rispettando la volumetria, sorge il palazzo “Trevisan”.

Per chi volesse approfondire le nozioni storiche sul feudo de la Terra della Tisana e sui signori Vendramin è di grandissimo aiuto il bellissimo volume della studiosa Stefania Miotto “La Chiesa venuta dal fiume. Storia e arte di Santa Maria di Bevazzana, ora a Lignano”, Tavagnacco, 19952.

Il libro, infatti, oltre all’accurato studio, non si esaurisce nell’indagine degli affreschi, ma ritesse con grande ricchezza di elementi documentari l’intero arco delle vicende storico-artistiche e conservative inerenti alla chiesa di Santa Maria dalle origini ai nostri giorni e che nessuno prima della prof.ssa Miotto era riuscito a tessere così bene.

Raccontare ancora un po’ le vicende del palazzo Vendramin, ci viene data dalla scoperta di un articolo apparso su “La Patria del Friuli”, il 29 marzo 1889, a firma del dott. Virgilio Tavani, noto saggista e storico latisanese3.

I Vendramin furono signori di tutto il feudo di Latisana nel XV secolo. Andrea Vendramin acquistò il feudo dai Malombra il 12 ottobre 1457, che comprendeva anche il porto, oltre a tutte le possessioni, diritti, prerogative, giurisdizioni, per 6.000 ducati veneti.

In un primo momento l’acquisto del feudo di Latisana venne intestato dal padre Andrea (elevato al soglio ducale il 5 marzo 1476) al figlio Bartolomeo in quanto questi era stato bandito da tutti i territori della repubblica Veneta per aver ucciso …con una freccia a caso un ufficial di barcha come scrive il Sanudo4.

L’ubicazione del palazzo Vendramin la vediamo nella pianta di Latisana, del 1834 di Antonio Banchieri, dove al n. 46 e 47 della legenda troviamo scritti i nomi “Ca’ Contarini” e “Ca’ Benzon”. Quando fu disegnata la pianta ormai palazzo Vendramin era passato per matrimonio ad altre famiglie patrizie venete.

I nobili Vendramin lasciarono un segno tangibile della loro presenza nel feudo di Latisana anche attraverso beneficenze, lasciti testamentari ed altre iniziative. Bartolomeo Vendramin, Cavaliere di Malta, venne sepolto nella Chiesa di Santa Maria dei Servi di Venezia dove la sua lastra tombale recita: “BARTH(olomeus) VENDRAM(enus) AND(reae) DUCIS F(ilius) LATISANAE DOMINO”5, fece affrescare la chiesa di S. Maria di Bevazzana ora a Lignano. Il figlio Zaccaria chiamò gli Eremitani Agostiniani a Bevazzana e Latisana. I nipoti: Andrea promuove il rifacimento del duomo di Latisana, Zaccaria12 fece costruire la chiesa S. Zaccaria in Pineda di Lignano, senza dimenticare poi le benefiche matrone Elena e Clara promotrici del Pio ospedale dei Poveri in Latisana6.

I Vendramin vennero sepolti in due arche site vicino al portale del Duomo, come e per espressa volontà testamentaria di Elena Vendramin, compatrona di Latisana (“…ordino et voglio… che il mio corpo sia sepolto nella Chiesa nostra di San Zuane Battista per mezo del Batisterio in un deposito fatto in terra sul pavimento della Chiesa, qual deposito sia di pietre cotte siccome si costuma in molti luoghi con insersion del nome, et cognome…). Nel corso della ristrutturazione settecentesca della chiesa (1756) le salme vennero rimosse e così i resti mortali di Elena e di suoi congiunti furono allora traslati in una nicchia parietale sigillata con lapide marmorea con la seguente epigrafe:

Lapide Marmorea Palazzo Vendramin di Latisana

(A Dio Ottimo e Massimo / Qui giace Elena Vendramin Signora di Latisana / la cui vita risplendette ornata di interessi letterari, opere pie e castità / Essa dopo la morte di suo padre, il chiarissimo signor Zaccaria, / degnissimo procuratore della Repubblica veneta, / resse la Signoria con somma felicità per dodici anni / All’età sua d’anni 52 protesa al cielo / qui dalla vita migrò nell’anno della salvezza / 1575 il 4 ottobre / Per lei la sorella Pia Clara Moro erede per suo testamento / questo monumento fece costruire).

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Un Paradiso perduto: Fraforeano

Gianfranco Ellero

Nella raccolta “Orlois” del 1974 scrissi che Fraforeano era “un paîs muart cul ciant dai lùjars”, cioè un paese morto con il canto dei lucherini: morto per me, che l’avevo abbandonato per andare a vivere “ta li’ sitâs dal mont”.

Nella parlata nativa avevo espresso allora la nostalgia per un paese che io avevo perduto, ma era ancora vivo, sia pure con un ridotto numero di abitanti: oggi, razionalmente, prevedo la sua scomparsa, forse anche fisica, in un non lontano futuro.

La sua ragion d’essere, infatti, nel giro di molti secoli, era strettamente legata a un’agricoltura praticata in un regime giuridico di fatto feudale fino al 1975, quando ebbero inizio le vendite a lotti della terra compresa fra il Tagliamento e in Cragno, la Barbariga e lo Spinedo.

L’emigrazione, indotta dall’introduzione di nuove tecniche di coltivazione e dalla contemporanea offerta di posti di lavoro nell’industria, in Italia e altrove nel mondo, era iniziata subito dopo la Seconda guerra mondiale, ed era diventata “di massa” nei vent’anni successivi. Così i 639 abitanti del 1951, si erano ridotti a 250 nel 1971.

Lo spopolamento era la logica conseguenza di vari fattori, che agivano in tutti paesi del Friuli, ma a Fraforeano, paese di contadini senza terra, ebbe esiti da subito evidenti e definitivi.

Il mio, infatti, era un paese diverso da tutti gli altri perché non conosceva la piccola proprietà familiare, e quindi una famiglia poteva vivere in loco soltanto se almeno uno dei suoi membri lavorava la terra. Tutti i tremila campi friulani dello Stabile, per secoli feudo dei di Varmo, Barbarigo, Molin, Calbo Crotta, Gaspari, poi “fondo chiuso” di Herpin, Ferrari e de Asarta, furono una proprietà indivisa lavorata da immigrati, cioè da famiglie contadine che non potevano mettere radici su terra d’altri.

Fraforeano, data la vastità delle aree coltivabili e la quantità dei raccolti, era anche un paese di lavoratori occasionali: negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento, ad esempio, dai paesi vicini arrivavano ogni ottobre in bicicletta, e portando un cesto, fino a quattrocento donne che, come si suol dire, davano una mano ai residenti per la rapida raccolta del granoturco.

Anche l’erba dei profondi canali che drevanano lo Stabile venivano gratuitamente lasciati per lo sfalcio a contadini dei paesi vicini (Canussio, Campomolle …), che in tal modo potevano rifornirsi di fieno per la loro piccola stalla senza destinare a erbaio una parte della loro piccola proprietà: “fen di Frofean pa la stalute di Cianùs” mi disse un giorno qualcuno.

Immigrati e provvisori erano anche gli impiegati dell’azienda, che talvolta venivano da lontano: i Rossini e i Ferrario, tecnici della coltivazione del riso, praticata fra le due guerre, venivano da Novara; i Moretti da Mantova.

C’erano anche famiglie contadine immigrate dal Veneto, come i De Piccoli e i Merlo, stanziati a Case Nuove. Fra loro parlavano il dialetto nativo, ma in paese si esprimevano nel nostro friulano tilaventino: era la lingua a dare coesione a quei contadini senza terra, e le tradizioni religiose, come il “perdons” di San Valantin (febbraio) e da la Salût (novembre).

Ormai i parlanti tacciono nel cimitero o parlano altre lingue sulle strade del mondo: è per questo che, ben conscio della perdita dello stress e dell’intonazione locale, ho voluto salvare almeno la forma e i significati della nostra lingua nel “Vocabolariùt di Frofeàn”, pubblicato dalla Provincia di Udine nel 2017.

Fraforeano da Sud

Fraforeano da Sud. (Foto Riccardo Viola).

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Sulle orme di Ippolito Nievo tra realtà, mito e fiaba

Carmela De Caro

Con l’obiettivo di valorizzare l’amatissimo scrittore Ippolito Nievo e non dimenticare la storica residenza del Castello di Colloredo, abitato dalla famiglia materna e luogo in cui curò “Le Confessioni di un italiano”, ricorderemo i luoghi prediletti dal poeta e descritti nelle sue opere. Riandremo nei territori de “Il conte pecoraio” e de “Il Varmo” passando per Torlano, S. Daniele e sino Camino al Tagliamento, Teglio Veneto, Fossalta di Portogruaro, trasmettendo l’intesse che Nievo aveva per il Friuli, porto e rifugio, punto d’incontro tra fantasia e realtà.

Castello di Coloredo

I Colloredo e il suo castello
La tradizione vuole che esso sia il modello del castello di Fratta, ipotesi avallata da una documentazione di personaggi del Friuli aristocratico, che lo riconosceva in quello di Fratta.

Certamente quello di Colloredo fu uno ma non l’unico castello a ispirare Fratta; dunque, se non fu l’unico, quale senso, ha avuto, per Nievo, per la sua storia e per le sue opere? Il Castello di Colloredo ha avuto un ruolo primario e promozionale ed è stato il motivo di esplorazione del Friuli che diversamente non ci sarebbe stato se il poeta non si fosse trovato nel castello con attorno la collina morenica e con vicini tutta una serie di personaggi rappresentanti ceti sociali e morali diversi.

Tali personaggi favorirono il crescere del suo umorismo e lo spronarono con i loro modi e vita che “profumava di passato” a prendere contatto fuori dal castello, nelle sue lunghe passeggiate all’aperto, con una vita primitiva, fresca e sempre in mutamento quindi con la classe sociale che meglio rappresentava tutto questo: i contadini. Nievo cercava più che nuove favole e miti, un senso di giustizia e di libertà con cui sostituire le sue fantasie di bambino, non solo una realtà povera e degradata da riscattare: cercava nuove immagini, altri personaggi. E al centro di tutto questo e di una tale maturazione vi è il castello di Colloredo, punto di osservazione, di partenza, di esplorazione che, se non fu visione dell’universo, fu indagine sulla realtà friulana condotta in contrasto con la realtà sociale osservata nel castello, meditata e valutata criticamente. Colloredo fu fondamentale per la poetica di Nievo e in particolare per quella poetica sociale al cui interno, sono da collocare problemi tra nobiltà e borghesia da un lato e proletariato specialmente contadino e servi dei nobili dall’altro. Il contrasto nasce dall’azione conservatrice osservata all’interno del castello e la vitalità analizzata durante le sue uscite alla ricerca di gente nuova che il poeta trova nei suoi percorsi collinari, nell’anfiteatro protettore del castello e fino alla pedemontana. Questi i luoghi in cui trova il nucleo del suo mito rurale.

Questa dunque la materia che gli permette di raccontare le vicende de “La Santa di Ara”, “I Fondatori di Treppo”, “La figlia della Madonna”, “Il Conte pecoraio” con cui ripercorre il dolce scenario dell’anfiteatro seguendo la fuga di Maria da Torlano e Billerio e Buia e Ragogna.

Colloredo non è, dunque, solo l’immagine di castello che ha ispirato Fratta: troppo poco! Degli interni troppo rimaneggiati ma abbastanza conservati nell’ala Nievo se li confrontiamo con la descrizione di Fratta, rimane poco. Forse la descrizione della camera dei signori di Fratta potrebbe corrispondere alla camera dei Nievo ove gli stemmi potrebbero aver suggerito il commento arguto sul fatto che i nobili hanno bisogno dei loro stemmi persino nella camera matrimoniale…

Altri interni di Colloredo forse hanno suggerito al poeta descrizioni di Fratta ma in definitiva non si può affermare nulla di preciso. Resta che Fratta con tutti i suoi lati irregolari nulla ha a che fare con Colloredo che è armonioso e soprattutto appare come un castello da guerra!

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Elementi medievali a Marano: il sigillo, il graffito, la Croce e le pàtere

Maria Teresa Corso

Il sigillo della chiesa maranese, sec. XIII
Il sigillo del Capitolo aquileiese per la chiesa di Marano raffigura “un’edicola con cuspidi e pinnacoli in stile gotico e un vescovo benedicente con mitria e pastorale”.

Fin dai tempi più antichi il sigillo fu uno strumento valido alla chiusura dei documenti per garantirne originalità e autenticità. Poteva essere in pietra, in metallo e veniva forgiato da valenti artisti al servizio di privati, di religiosi, di politici, etc. Questo antico sigillo è probabilmente forgiato in lega di metallo.

Non ci sono certezze che Marano sia stata sede episcopale, ma esistono notizie tratte dal Concilio tenutosi da papa Agatone nel 680 d.C., in cui viene affermato che fu presente un vescovo marianensis (2) a cui faceva capo una segreteria, chiamiamola così, dotata di sigillo che potesse affermare i documenti del prelato.

Lo scisma del VI sec. d.C. fa intendere che Marano doveva essere una sede importante dal punto di vista politico-religioso se essa venne scelta per ospitare un sinodo di vescovi giunti da tutta la giurisdizione aquileiese per discutere temi di natura religiosa e universale.

Si presume che a Marano fosse già presente una comunità cristiana nel IV secolo d.C. con una chiesa propria, distante solo alcune miglia da Aquileia e altrettante da Concordia che, a loro volta, erano già sedi vescovili.

Altre informazioni che riguardano il Sinodo di Marano del 590, a cui parteciparono una ventina di vescovi, documentano che vi partecipò anche Giovanni di Celeia, ritenuto il Vescovo che aveva sede a Marano (3).

Il graffito
Marano nel XII secolo fu pieve soggetta al Capitolo aquileiese e come tale villa sotto la giurisdizione patriarcale (1077-1420). Il Capitolo imponeva al suo pievano il rispetto delle tradizioni e delle festività in giorni prestabiliti e imponeva la riscossione delle decime sui prodotti, come in tutto il territorio friulano. Come si riscopre nell’elenco dei debitori censuali, si parlava la lingua friulana perché i nomi di coloro che dovevano pagare al Patriarca la decima, per almeno due terzi erano nomi friulani. Ciò che si scopre studiando il rotolo censuale aquileiese (del 1201) è la vita del Medioevo nella piccola fortezza di Marano, una vita soggetta alle decime e alle imposizioni tributarie e contributive dovute ai marescialli del patriarca di Aquileia che fissavano semestralmente i prelievi del dovuto: olio, pollami, pesce, verdure, frumenti, etc. Il senescalco gestiva la canipa (caneva) e il dapiferato, istituzioni che incameravano tutti quei beni che le varie comunità in regime di feudo erano costrette a pagare. Del resto conosciamo il dono alla comunità di Marano da parte del patriarca Popone nel 1031: acque, boschi, terreni e pesca e caccia da… a… e dunque le tasse o prelievi da pagare erano cosa dovuta. Ci rendiamo conto storicamente che i nostri concittadini hanno ‘pagato’ il lascito del patriarca Popone, cioè l’uso civico esclusivo della laguna. Fra 11 (undici) anni e cioè nel 2031 saranno passati mille anni da quella regalìa feudale….

pàtera raffigurante l’Agnus Dei

La pàtera raffigurante l’Agnus Dei si trovava nella chiesetta del cimitero di San Vito

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Il prezioso archivio fotografico del Genio Civile conservato nel magazzino idraulico di Pertegada donato al Craf di Spilimbergo

Giovanni Santoro

Il Genio Civile di Udine ha donato al Craf di Spilimbergo un archivio fotografico ricco di lastre e positivi. Si tratta di circa 5000 testimonianze degli interventi del Genio Civile che ritraggono opere pubbliche realizzate sul territorio friulano dal 1920 al 1950. Il Genio Civile venne introdotto nel Regno di Sardegna da Vittorio Emanuele I, con la denominazione di Corpo reale del genio civile e nel 1859 fu aggregato al Ministero dei lavori pubblici. Le sue competenze riguardavano tutti i lavori pubblici sul territorio nazionale (infrastrutture, edifici pubblici, idraulica etc).

Nel corso degli anni ci furono vari processi di decentramento e di ristrutturazione e con l’istituzione delle Regioni, molte competenze del Genio Civile furono trasferite a tali enti.

Il materiale di rilevanza storica è stato consegnato all’Archivio di Stato, ma negli anni molte cose sono andate perdute o distrutte.

In una di queste ristrutturazioni sono state trovate e salvate da distruzione certa numerose vecchie lastre fotografiche e positivi, i quali poi, sono stati conservati presso il magazzino idraulico di Pertegada, dove esiste un piccolo museo di queste memorie “salvate”, curato da Giovanni Santoro che oltre ad essere un funzionario di Polizia Idraulica è un autentico appassionato storico della materia.

Numerosi sono i pezzi che ritraggono costruzioni di ponti e strade, bacini montani e argini ma anche case e scuole.

Durante una visita al “museo” da parte del consigliere regionale dott. Pietro Colussi (componente della commissione di vigilanza delle biblioteche) ci si accorse della rilevanza storica del materiale fotografico e fu proposto di consegnarlo all’Ente Regionale di conservazione fotografico. Avviato l’iter burocratico, si è proceduto in queste settimane alla consegna del fondo al Craf di Spilimbergo, il quale provvederà a catalogare e archiviare, con minimi interventi di restauro, l’intero fondo rendendolo consultabile al pubblico.

Il materiale potrà essere consultato al Craf di Spilimbergo, dopo la sua restaurazione e informatizzazione, presso il palazzo Tadea, in piazza castello, contattando il direttore Alvise Rampini.

interno del magazzino idraulico di Pertegada

Lo spazio espositivo-didattico all’interno del magazzino idraulico di Pertegada

I boschi Coda e Mulvis del Nobil Huomo Lodovico
Manin ex comunali di Muzzana.
Note storiche, etimologiche e antropologiche

Renzo Casasola

Introduzione
Il bosco Coda di Manin, con i suoi 147 ettari di superficie, si pone al secondo posto tra i boschi planiziali del Comune di Muzzana del Turgnano (Ud) e dell’intera pianura veneto-friulana alle spalle del contermine bosco Baredi o Strassoldo che ne ha 168.1 Tutti e due vegetano a poche centinaia di metri dalla linea di costa dell’Alta laguna di Marano Lagunare.

Il bosco Mulvis, nell’Età di Mezzo denominato anche ‘bosco di Mortegliano’,2 resiste al tempo solo come toponimo, essendo ora ridotto a coltura, nel settore nord-orientale del Comune della Bassa a nord della Strada Regionale 14 e a sud dell’area urbana dei Casali Franceschinis.

Molto s’è detto e scritto sul primo, un magnifico querco-carpineto mesofilo dalle interessanti peculiarità botaniche ma che, come per il secondo, custodisce neglette le oscure e tribolate vicissitudini storiche che sono, ad integrazione, l’oggetto di questo contributo.

Da una oramai datata pubblicazione apparsa sull’’Annuario 2010’ dell’Associazione culturale ad Undecimum di San Giorgio di Nogaro (Ud), a firma del prof. F. Sguazzin,3 si legge che: “… il bosco Coda di Manin rappresenta storicamente il resto di una proprietà della famiglia fiorentina Manin, famiglia che, con un suo ramo, si era trasferita nel 1312 in Friuli al servizio del Patriarca di Aquileia. Nel 1651,4 dietro versamento di 100.000 ducati, i Manin entrarono a far parte dell’aristocrazia veneta e quasi certamente intorno allo stesso periodo acquistarono nella Bassa Friulana 1500 campi di terreni paludosi, di cui 676 in un unico lotto a Muzzana. Da questa operazione entra probabilmente il nome Manin nel toponimo relativo al bosco contrassegnato nelle carte topografiche con l’indicativo Coda di Manin. E l’appellativo popolaresco (?) ‘Coda’ sembrerebbe poi dovuto alla forma allungata del bosco”.

Fin qui le note dell’illustre botanico e briologo muzzanese già autore di numerose pubblicazioni scientifiche in materia, molte delle quali relative a questi boschi,5 ma un ulteriore e recente contributo integra, aggiorna e chiarisce ulteriormente, la storia di questa nobile famiglia toscana ed il ruolo socio-economico che ebbe in Friuli ed anche a Muzzana. La ricercatrice medievalista E. Scarton, infatti, dopo una minuziosa ricerca d’archivio fa risalire il loro arrivo a Udine al 1327. Originari di San Giusto in Petroio (Firenze), arrivarono in città in seguito alle lotte fra Guelfi e Ghibellini:6 “… i Manin furono attratti dallo sviluppo commerciale della città di Udine, che in quel periodo era in piena rivalità di dominio con Cividale e stava iniziando il suo percorso di centro abitato dopo essere stata un mero presidio militare…”.7

Il bosco Coda di Manin

Il bosco Coda di Manin, posto a sud-est di Muzzana, con le denominazioni delle particelle boschive medievali ora non più attive. Il canale Cormor (ex fossato della Cernitura), divide il suo settore orientale e meridionale dal comune di Carlino (Carta Tecnica Numerica Regionale, Scala 1:5.000, 2006).

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I cento anni del monumento ai caduti e reduci di Cesarolo

Nello Gobbato
Il monumento ai caduti di Cesarolo

21 febbraio 2021: saranno cent’anni dall’inaugurazione del Monumento ai Caduti e Reduci di Cesarolo, uno dei primi costruiti in Italia dopo la Grande Guerra su iniziativa dell’allora parroco don Giovanni Forgiarini.

Originario di Gemona del Friuli, dov’era nato nel 1875, ordinato sacerdote nel 1900, sergente maggiore degli Alpini in congedo, fin dalla nomina a parroco di Cesarolo nel 1909 don Forgiarini si era dimostrato “uomo colto, deciso e dinamico. Guidò la costruzione della canonica (1910), di una nuova grandiosa chiesa in sostituzione di quella settecentesca ormai divenuta troppo piccola (1911-1913) e, dopo la guerra (1923), di un asilo per le cure antimalariche”. “Era stato”, inoltre, “guida, sostegno morale e materiale per la numerosa comuntità di Cesarolesi, composta da donne, anziani e moltissimi bambini, fuggiti durante l’anno di invasione austroungarica (1917-18) e sfollati in Sicilia”.

Rientrato a Cesarolo, il parroco Forgiarini sentì il dovere di dare vita ad un’opera di grande significato per la ricostruzione della sua comunità pesantemente segnata dai disagi della profuganza e della guerra che aveva causato oltre 70 morti in combattimento, per malattie durante la prigionia, i quali hanno generato 23 vedove e 58 orfani.

Nel 1919, insieme ad un gruppo di soràstans locali, cioè di persone che avevano un particolare ruolo sociale in seno alla comuntà e, in buona parte, già iscitte all’Associazione Nazionale Combattenti di San Michele al Tagliamento, promosse un Comitato per l’erezione del Monumento ai Caduti in guerra.

“Il 14 novembre 1919, il Comitato inoltrò istanza al Regio Ministero degli Interni per l’autorizzazione a costruire un monumento dedicato agli abitanti di Cesarolo defunti durante il conflitto”.

Ottenuta l’autorizzazione, anche grazie all’intermediazione del deputato Amedeo Sandrini, “l’opera venne commissionata al rinomato scultore latisanese Francesco Ellero che la portò a compimento in brevissimo tempo”. Per il pagamento si provvide ad una raccollta di fondi tramite donazioni e con il ricavato di una Pesca Benefica pro erigendo Monumento.

Da notare che a Francesco Ellero, il Comune di San Michele al Tagliamento avrebbe commissionato nel 1933 anche il progetto per la costruzione del Monumento al fante del Carso, ancora presente nel vecchio Capoluogo, e punto di ritrovo e riferimento per tutte le più importanti cerimonie commemorative.

Con l’inaugurazione del Monumento ai Combattenti e Reduci di Cesarolo in data 21 febbraio 1921 ebbe luogo la prima delle annuali commemorazioni dei Caduti che quest’anno, per le limitazioni imposte alle manifestazioni pubbliche dall’epidemia per il corona virus, ha potuto svolgersi solo in forma assai dimessa mentre, in quanto 100^ edizione, era stata pensata come ricorrenza eccezionale a cui dare grande risalto.

Monsignor Giovanni Forgiarini intese il momunento come manifestazione di “voto collettivo di un’intera comunità” e, punto di ritrovo per una Festa che dovesse rivestire il duplice aspetto di cerimonia patriottica e, allo stesso tempo, religiosa; perciò volle che il monumento venisse significativamente collocato vicino alla Chiesa.

Va ancora aggiunto che quella di Cesarolo, alla fine degli anni Venti, era una comunità in grande espansione con una popolazione che, grazie alla bonifica integrale iniziata prima e ripresa dopo la Grande Guerra, era raddoppiata fino a superare i 4.000 abitanti.

Il monumento, sorto per ricordare le vittime della Grande Guerra, ha finito per accompagnare tutta la storia di Cesarolo lungo un secolo.

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Dalle memorie del soldato Vittorio Gregoratti.
Dall’Abissinia allo stamlager IX-C in Germania: un impegno reso alla Patria per quindici anni (1929-1945)

Paolo Gregoratti
Libro Vittorio Gregoratti

In occasione del 75° anniversario della fine della Seconda Guerra mondiale, su invito de “la bassa”, ho voluto raccogliere su un volumetto appunti e foto che mio padre Vittorio aveva scritto per illustrare i primi anni della sua vita ed il suo impegno reso alla Patria per quasi 100 mesi negli anni dal 1929 al 1945 quando rientrò dal campo di concentramento in Germania. Ho inserito inoltre la trascrizione integrale del diario che aveva tenuto dal momento della cattura alla liberazione da parte degli americani.

Premetto che l’associazione “la bassa” aveva già dato alle stampe nel 2000 il libro “Scjampe Negus! L’Etiopia e la guerra del Duce vista dall’obbiettivo di un soldato semplice” nel quale apparivano circa 350 foto da lui scattate durante i 14 mesi di permanenza in Abissinia.

Riporto uno stralcio delle sue memorie perché restino a testimoniare alcune vicende dei nostri soldati che patirono a causa di guerre da loro non volute ma con l’obbligo di servire la Patria. E’ anche questo un impegno per coltivare il “dovere della memoria” e per ricordare alle nuove generazioni alcuni episodi del nostro passato.
Vittorio Gregoratti: alcuni ricordi
Sono Vittorio Gregoratto, nato il 28 agosto 1910 a Palazzolo dello Stella, o forse Gregoratti, in quanto a Palazzolo c’è un po’ di confusione su questo cognome ed i documenti non sono concordi. Fortunatamente tutti mi conoscono per Vitorio Cansian così non ci sono problemi con la finale del cognome.

E veniamo al motivo per cui, un bel giorno, ho pensato di raccontare una parte della mia vita. Avevo in cassetto un’agendina del 1943 che conteneva il diario di un’avventura che ho trascorso in Germania, ospite dello STAMLAGER IX C a Wasungen/Werra in Turingia.

Della guerra 15-18 ho dei ricordi tristi, seppur confusi, nel periodo dell’invasione austroungarica e quelli altrettanto dolorosi per la perdita della mia mamma a 30 anni a causa della febbre spagnola quando io avevo 8 anni.

A 16 anni, mio padre mi mandò a Codroipo ad imparare il mestiere di macellaio da Gigi Tomada, anche se io ero più portato per la tecnica, che coltivavo a livello di passione o come si dice oggi per hobby. La fotografia mi attirava molto e appena mi fu possibile iniziai a documentarmi con libri e poi a manovrare con macchine, lastre e sviluppo in camera oscura.

I motori erano poi un’altra mia passione ed appena raggiunta l’età prevista, sostenni l’esame di guida per motocicli ed automobili. Patente n. 8 del 31 marzo 1931.

Infine la musica, come suonatore di violino in un complesso molto richiesto nelle serate danzanti della zona. Ero impegnato anche nelle serenate sotto le finestre di qualche ragazza, come si usava a quei tempi; il risultato però non era sempre assicurato.

Quando fui chiamato alla visita di leva il 30 dicembre 1929, mio papà aveva tentato di non farmi fare il militare; mi aveva intestato 4,57 pertiche di terreno in Comune di Precenicco, mi aveva coinvolto nella gestione delle sue attività agricole e commerciali e dichiarato che ero indispensabile alla loro conduzione Solo il 24 marzo 1930 avevo ottenuto la ferma riducibile in quanto capo famiglia con un reddito di 2.890,84 lire.

Ma la patria aveva evidentemente bisogno anche di me e a nulla valsero domande e raccomandazioni. Il 7 aprile 1931 partii per il 3° Centro Automobilistico di Milano dove il Regio Esercito mi mise a disposizione una fiammante motocicletta con tanto di tromba a pera. Ho conseguito l’idoneità nell’istruzione premilitare, frequentato il prescritto biennio del corso e superato gli esami finali come da certificato rilasciato dal comando M.V.S. n. 63. Il 7 ottobre 1931 mi mandarono in congedo illimitato con dichiarazione di aver tenuto buona condotta e di aver servito con fedeltà ed onore.

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C’è un virus peggiore del COVID 19?

Roberto Tirelli

L’ultima parte dell’inverno è stata caratterizzata dalla vicenda del Coronavirus, vicenda che come in tempi assai lontani ha fiaccato la vita sociale ed economica, mettendo impietosamente in evidenza le nostre debolezze, da quelle personali a quelle nazionali e planetarie. Alla fine dell’inverno però so è manifestato un altro virus ben più pericoloso e letale che determina la fine della cultura non professionale, ma volontaria. Infatti dopo aver pubblicato una raffica di bandi per concedere contributi, la Regione Friuli Venezia Giulia ha continuato a dare molto a pochi, escludendo una vasta messe di progetti validi “ammissibili, ma non finanziabili per mancanza di risorse” oppure “ammissibili, ma senza aver raggiunto i 50 punti”. E’ facile capire che le domande de “ la bassa” sono finite in queste categorie . E se per caso con un progetto ci siamo avvicinati ad un punteggio un po’più alto hanno incominciato a chiederci un sacco di carte da tempo depositate in Regione e persino l’originale del codice fiscale quando anche un bambino sa che basta andare sul sito della agenzia delle entrate per ricavarlo.

Comunque anche quest’anno non abbiamo avuto la soddisfazione almeno di arrivare “primi fra gli ultimi”, ma siamo stati cacciati in fondo alle classifiche. All’infoday> un partecipante ha chiesto perché non fosse possibile dividere la quota di finanziamento di ciascun bando fra tutti i progetti ammissibili. Proposta giusta perché ciascuno può prendersi le misure e se è troppo poco può sempre ritornarlo. La risposta dei Soloni sul palco è stata: costerebbe di più per ciascuna pratica l’istruttoria dell’importo concesso. Non occorrono commenti, mentre come “bassa” ci avviamo verso l’impossibilità di uscire con la nostra rivista o di dare alle stampe le ricerche dei nostri associati.

Ci sono dunque dei virus peggiori del coronavirus per il quale basta la quarantena, ma dall’infezione che mortalmente affligge la nostra cultura regionale non se ne esce vivi.

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Progetto Primis: turismo e scoperta del territorio

Nello Gobbato

Come sappiamo, in passato buona parte dell’attuale Veneto Orientale era compresa nella cosiddetta Patria del Friuli un’area che, seppure in modo non uniforme per la presenza di alcune enclave territoriali sottoposte ad altre giurisdizioni, si estendeva da Aquileja al fiume Livenza. Fondata il 3 aprile 1077, la Patria del Friuli ebbe vita autonoma con proprie istituzioni di rappresentanza democratica che, per allora, costituivano una novità assoluta. Tale esperienza di governo terminò all’inizio del quindicesimo secolo con l’avvento del dominio veneziano.

Durante i quasi quattro secoli di dominazione della Serenissima, nonostante la forte presenza ed il condizionamento della componente veneta nella vita pubblica, la cultura friulana ha continuato a mantenersi viva soprattutto tra i ceti popolari.

Ancora oggi tra territori limitrofi, appartenenti a regioni diverse, ma per secoli accomunati da fattori economici, linguistici e culturali, sussistono, seppure in forma attenuata, legami da considerarsi retaggio di un comune passato.

Dopo un lunghissimo periodo di omologazione linguistica derivante dall’impostazione unitaria del nostro Paese, ribadita con forza durante gli anni dell’esperienza fascista che puntava ad una organizzazione accentrata della cultura con l’imposizione della lingua ufficiale in tutto il territorio nazionale, ritornò di attualità il tema delle minoranze linguistiche e dell’uso dei dialetti come strumenti di espressione e di creatività e quindi come patrimonio da preservare e promuovere. Ricordiamo, per inciso, il dibattito sollevato da Pier Paolo Pasolini in tema di parlate minoritarie, dialetti compresi, come strumenti di promozione culturale. Una tematica sempre presente a livello di Società Filologica e costantemente richiamata in molte realtà del Veneto Orientale dove sono presenti e attive minoranze, anche consistenti, di lingua friulana.

In campo artistico, inoltre, i territori in questione conobbero periodi di splendore grazie all’opera di autori di fama veneti e friulani che si influenzarono a vicenda e che fondarono scuole e laboratori d’arte a cui ebbero modo di formarsi giovani talenti.

Autori che hanno lasciato tracce dei loro lavori e, a noi, in eredità e custodia, un patrimonio artistico considerevole.

Sulla base di queste premesse a livello di regioni e territori contermini del Veneto, del Friuli Venezia Giulia e della Slovenia, è nato il Progetto Primis finalizzato a “far conoscere i territori e le lingue di minoranza di riferimento nonché preservare e tramandare il valore del patrimonio culturale e linguistico locale e rafforzare l’offerta turistica“.

Nel nostro caso, a grandi linee, si tratta di un’area geografica di minoranza linguistica friulana all’interno di una realtà amministrativamente e politicamente veneta, situazione analoga ad altri contesti in cui sono presenti e attive altrettante minoranze etnico-linguistiche come gli Sloveni in Friuli, gli italiani in Slovenia, i Cimbri e i Ladini nel Veneto, che hanno aderito al Progetto Primis.

Il progetto si articola in una serie di fasi attuative partendo dalla raccolta e mappatura degli elementi immateriali (letteratura, racconti, produzione poetica, modi di dire, linguaggio, usanze e tradizioni popolari) e materiali (opere d’arte, monumenti, chiese, costruzioni e siti di rilevanza storica) da proporre e spendere in funzione turistica secondo un’idea di turismo non limitata alla sola fruizione balneare di sole, spiaggia e mare ma intesa in senso lato comprensiva, cioè, della possibilità per il turista di conoscere anche gli elementi di pregio e di interesse presenti nei territori alle spalle delle località balneari.

Per ogni ambito territoriale coinvolto nel progetto si tratterà di individuare una serie di punti di interesse, produrre una cartina con le aree di insediamento delle comunità di riferimento, redigere un elenco del materiale esistente nelle aree individuate e compilare una serie di schede (una per ogni ambito).

Oc, Pitoc Caorlot, tut de un toc”, ... Caorloti sangue de rana”, Caorloti magna pesse mars”, I Caorloti i xe roversi come i soasi, cioè le passere. (Nell’ordine: il Caorlotto è equiparato, per il vaniloquio rumoroso allo starnazzare dell’oca e al gloglottio del tacchino; il sangue della rana sta a indicare il carattere freddo e anaffettivo; il pesce pregiato era venduto e le famiglie si cibavano la minutaglia deperibile e scadente; i Caorlotti hanno l’intestino dalla parte opposta come i passerotti).

La risposta non si fa attendere: “Contadini de Ca’ Corniani, magna rospi e fioi de cani”.

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La famiglia Massa, medici e commercianti a Marano

Maria Teresa Corso

Nel grande Arsenale di Venezia si conosceva il luogo dove venivano costruite imbarcazioni da commercio chiamate marani, appunto dalla località di Marano, luogo in cui venivano fabbricate.

Proti, calafati, impeciatori, maestri d’ascia locali dovevano essere numerosi e valenti se la richiesta di imbarcazioni da commercio proveniva da commesse di imprenditori capaci e coraggiosi negli investimenti. Tra questi furono i Massa, una facoltosa famiglia genovese che era arrivata a Udine e Aquileia alla fine del Trecento e da questi luoghi ebbe l’impulso di commissionare navigli da commercio alla marineria maranese, probabilmente la stessa che nel 1516 ai Bioni lavorava ancora con un piccolo arsenale. La famiglia Massa acquistò casa a Marano, di cui oggi non si riesce ad individuare il luogo, ed ebbe intensi contatti con le altre zone d’influenza veneta, con le isole greche, con la Turchia, scambiando con esse sete, lane e armi a fronte di aromi, spezie, tappeti, etc. Era una via commerciale verso il Mediterraneo aperta, e ai fini commerciali e politici valeva la pena conservare gli scambi e i commerci.

Tomaso Masson Era un nobile e ricco mercante. Nato circa nel 1380 a Genova da Nicolò (1350) e a sua volta dal nonno Tomaso (1320), partì per Udine e Aquileia nel 1400. Si stabilì a Venezia nella contrada di S. Pietro, tenendo casa anche a Marano per una ragione commerciale. Qui aveva fatto costruire dai proti> maranesi 5 navigli per i suoi cinque figlioli (Dizionario Biografico degli Italiani). Questi navigli presso l’arsenale di Venezia, erano detti marani, per indicare il luogo dove furono fabbricati.

Apollonio Massa (di Tomaso)
Apollonio di Tomaso era nato nel 1435 morì di peste nel 1505. Cambiò il cognome Masson in Massa, e si unì a Venezia prendendo servizio nelle navi che combattevano i Turchi. Nominato capitano di fanteria intervenne all’assalto di Negroponte, restando gravemente ferito. Nel 1470 scese di nuovo a Negroponte perdendo tre dei suoi navigli costruiti a Marano dai proti. Probabilmente erano stati realizzati in località Bioni perchè vi è notizia che nel 1516 vi era un arsenale per la costruzione delle navi. Fece ritorno a Venezia, recandosi a Marano per attendere ai suoi possedimenti.

A Venezia il 4 Settembre 1483 sposò Franceschina Dainese, figlia di Domenico e di Maria de Rossi q. Manfredo da Parma. Una ricca e numerosa famiglia composta da nove figli. 1. Tommaso (1484-1505), cancelliere e notaio a Marano, dove attendeva ai suoi beni; 2. Domenico (1486-1502); 3. Niccolò (1487-1489); 4. Niccolò (Ve 14.3.1489-Ve 27.8.1569); 5. Alvise (n.5.2.1492-?) Nonostante i consigli del fratello Niccolò di restare a casa, fu combattente in Turchia, dove venne torturato e ucciso; 6. Lucrezia (1492?) sposata con Marco Crasso col quale mise al mondo Niccolò Crasso (1530?-1595); 7. Vicenza (1494?-?) morta nubile; 8. Antonio (1496-1529) sposato con Marina Giunta, già vedova. Eccellente orefice; 9. Paola (1500?-1566?) sposata con Antonio Caresini. Ebbero Lorenzo Caresini-Massa.

Apollonio visse con lei fino al 28.8.1505, anno in cui morì di febbre pestilenziale (come il figlioletto Tommaso), a 70 anni circa, nella contrada di S. Pietro e fu sepolto nella chiesa di S. Domenico di Venezia.

Apollonio aveva altri 4 fratelli, di cui si ha notizia solo di uno: pre Nicolò Massa, nato nel 1425 che fu plebano e notaio a Marano. E’ curioso notare che il 12.9.1454 roga un atto, con cui affitta a Giovanni Vatta ben due pantiere.

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Memorie di Guerra 1940- 1946: Albino Guerin.
Da Gradisca d’Isonzo per il fronte Greco/Albanese e internato nei lager in Germania

Enrico Fantin

Appena trascorso il centenario della Grande Guerra si presenta l’occasione, anche per non disperdere la memoria, di raccogliere qualche testimonianza di nostri soldati che parteciparono alla Seconda guerra mondiale.

Una cartella ricevuta alcuni anni fa dal nostro collaboratore giornalista Nevio Altan, mancato a novembre del 2018, conteneva appunti e memorie di Albino Guerin di Ronchis, con allegata una lettera ricevuta da un suo ex commilitone, Rinaldo Colombo di Canegrate (MI), dove fra l’altro scriveva che “la nostra è stata una guerra non sentita e non voluta, ma fieri di essere italiani vissuta ligi al nostro dovere verso la nostra Patria per oltre un quinquennio”.

Una lettera dattiloscritta di quattro pagine con appunti che descrivono i preparativi dei pontieri a Gradisca d’Isonzo, nell’agosto/settembre 1940, per la partenza verso l’Albania; la costruzione del ponte sul Kalamas in piena. Poi descrive la vita a Tepeleni, ponte Vojussa, Argirocastro, Perati, Giannina, Tomori 2400 fino all’ultimo ponte sul fiume a Larissa.

Nella lettera contenente altre vicende successe in quelle terre, mi attraggono queste due righe di elogio dirette dopo tanti anni all’amico ex commilitone: “Pontiere Guerin, tiratore scelto, ex infermiere, nuotatore anguilla, amico fidato, sincero, patriottico, leggendario del fronte Greco/Albanese, del 31° reparto Genio Pontieri, dislocato sul fiume Kalamas…”.

Guerin Albino è morto il 24 marzo 2005 e riposa nel cimitero di Ronchis (UD).

Ricordi della Seconda guerra mondiale, di GUERIN ALBINO.
Allo scoppio degli eventi bellici in Italia, dal Distretto Militare di Trieste fui destinato il 12 marzo 1940 al 1° Reggimento Pontieri 19ma Compagnia, e inviato in Albania incorporato nella Divisione Julia, posta militare 23, poi, 202, a Tepeleni, sul fiume Vojussa.

Una notte di settembre dello stesso 1941 suonò l’allarme.

Tutti domandavano dove si va, nessuno sapeva niente. Finalmente, dopo caricate le barche e il materiale occorrente ai pontieri, ci si disse che eravamo diretti a Gradisca d’Isonzo. Si parlava che si doveva andare in Jugoslavia. Dopo circa 10 giorni altro allarme: caricati i camion si parte per Villa Vicentina e, come al solito non si sapeva dove si andava, poi mi addormentai e mi svegliai più tardi a Bologna. Da qui ci comunicarono che si andava a Brindisi per l’imbarco.

Saliamo a bordo della nave “Crispi” per destinazione come sempre ignota. Salpati alla sera, non ricordo né data né ora, sbarcammo il giorno seguente e ci dissero-che eravamo a Valona, in Albania.

La nave non poteva attraccare al pontile, così dovemmo servirci degli zatterini, che portavano 24 persone, 12 per parte.

Ad attenderci c’erano gli “Spitfire” inglesi: non abbiamo avuto neppure un morto nella nostra Compagnia, neppure uno, ripeto, poiché il loro fuoco durò oltre un’ora.

Abbiamo montato le tende fuori del porto e della cittadella per paura di essere attaccati dai partigiani albanesi. Si diceva che la partenza da Valona per il fronte greco-albanese era alle 4, ma né io né il mio compagno di tenda, un certo Arviotti di Genova, abbiamo sentito l’allarme per la partenza. Siamo invece partiti il giorno dopo per Tepeleni sul Vojussa.

La mia Compagnia gettò il ponte perché potessero passare le nostre truppe in marcia verso il monte Golico. Il nostro compito era la salvaguardia del ponte. Molti miei compaesani combattevano sul monte Golico che distava circa mille metri in linea d’aria.

Cessate le ostilità siamo rimasti truppa di occupazione.

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