Al tempo della persecuzione di Massimino (311) lasciò il suo isolamento per recarsi ad Alessandria a prestare aiuto e conforto ai cristiani perseguitati. Alcuni mesi prima della morte tornò nuovamente ad Alessandria per combattere gli Ariani. Una quindicina di anni prima, aveva concesso a due suoi discepoli, Macario e Amathas, di raggiungerlo e di far vita comune con lui. Poco prima della morte predisse loro la sua fine imminente con la proibizione di manifestare ad alcuno il luogo della sua sepoltura e ciò per sottrarre la sua salma.
Morì più che centenario il 17 gennaio del 356. La sua vita è caratterizzata da prodigi e lotte con il demonio (famose sono le tentazioni di S. Antonio) che fecero di lui uno dei santi più popolari dell’antichità.
Il luogo della sepoltura di Sant’Antonio era ancora sconosciuto quando Atanasio ne scriveva la Vita. Verso il 561 sotto l’imperatore Giustiniano fu scoperto il suo sepolcro per mezzo di una rivelazione. Le reliquie furono traspor- tate ad Alessandria e deposte nella chiesa di S. Giovanni Battista verso il 635, in occasione dell’invasione araba dell’Egitto, furono portate a Costantinopoli. Di qui, nel sec. XI, passarono alla Motte-Saint-Didier in Francia, portate da un crociato al suo ritorno dalla Terra Santa. La chiesa costruita per accoglierle fu consacrata dal papa Callisto II nel 1119. In seguito (1491), furono traslate a Saint Julien presso Arles.
La diffusione del culto popolare di Sant’Antonio Abate fu dovuto probabilmente alla sua fama di guaritore dall’herpes zoster o “fuoco di S. Antonio”, detto in termini medici ergotismo, malattia dipendente dall’avvelenamento dato da un fungo presente nella segala usata per confezionare il pane, affezione che colpisce le cellule nervose e si manifesta con fenomeni epidermici localizzati lungo il decorso dei nervi.
La grave intossicazione aveva colpito mezza Europa ed era praticamente inguari- bile, così molti malati, visti inefficaci tutti i rimedi, si recavano alla chiesa di Saint-Antoine de Viennois, in cui erano conservate le reliquie di Sant’Antonio portate in Francia al suo ritorno da un pellegrinaggio in Palestina, e per accoglierli si rese necessaria la costruzione di un ospedale.
Ebbe così origine l’Ordine ospedaliero degli Antoniani, che prese come sue inse gne la gruccia a forma di T, tradizionale attributo di Sant’Antonio Abate.
Sebbene nell’Europa occidentale ormai ci si senta sempre più “cittadini del mondo” e si affievoliscano termini come patria,nazione, etnia…un tempo determinanti per definire la propria identità, rimane vivo pure fra le nuove generazioni il senso dell’appartenenza ad un luogo ove si collocano affetti e ricordi tali che permettano ancora di affermare “io sono di… ”. Grazie alla toponomastica conosciamo il significato dei nomi dei luoghi abitati, talora anche la storia ci dice quando una località viene fondata (ad esempio il 181 avanti Cristo per Aquileia), ma non conosciamo in che modo siano venuti a formarsi i processi di identificazione dei gruppi umani e dei suoi singoli componenti con essi. Gli storici solitamente non si preoccupano di dirci come è sorto un paese, ma danno per
scontata la sua esistenza e denominazione, così come dei suoi abitanti.
Storicamente l’identità personale e d’insieme che deriva dal luogo di abitazione (da habitus- abitudine) nella pianura friulana ha tre passaggi che si possono definire epocali. Del primo, preistorico, non sappiamo nulla perché legato all’avvenuta sedentarietà, nei villaggi dall’età del bronzo a quella del ferro, con riferimenti vaghi a popolazioni celtiche o venetiche o sconosciute, al popolo dei castellieri…. Il secondo passaggio epocale è chiaramente legato ad Aquileia ed al suo territorio, con i primi riferimenti toponomastici,soprattutto in età tardo imperiale.
Infine il terzo passaggio nell’alto Medioevo dal X al XII secolo è quello della presenza della stragrande maggioranza degli attuali centri abitati, salvo quelli fondati, ma sono pochi e documentati, nei secoli successivi (ad esempio Palmanova o Villa Vicentina). L’origine del villaggio preistorico è contrassegnata dalla fine del nomadismo e dall’affermarsi della sedentarietà. Il cacciatore passa ad essere raccoglitore-pastore seminomade sino poi a fermarsi in un determinato luogo divenendo agricoltore-artigiano e abitando costruzioni stabili. Il criterio dell’insediamento è dettato dalla fertilità dei terreni, dalla possibilità di difendersi e dalla accessibilità alle materie prime.
Ovviamente vi è un processo di identificazione anche nel villaggio preisto- rico se non altro nella reciproca, fondamentale solidarietà che richiede il vivere in un contesto ostile sia per gli eventi naturali sia per le ricorrenti invasioni. La mancanza di fonti scritte ci impedisce di conoscere questa lunga esperienza abitativa nella pianura friulana, lasciando alla archeologia il testimoniare le presenze umane in alcuni luoghi come i castellieri oppure i villaggi di Sammardenchia o Piancada.
Con la fondazione di Aquileia e l’insediamento romano incominciano ad essere noti i nomi di luogo con l’apporto degli storici per cui “aquileienses” oppure “galli” appaiono nelle narrazioni. In età tardo imperiale si aggiungeranno anche coloro che si diranno “forojulienses”, “concordienses” etc.
I popoli barbarici ed i Longobardi in particolare si installano nei luoghi già abitati dai romani così come, nella parte litoranea, i bizantini per cui anche attraverso le cronache si saprà che Paolo Diacono è di Cividale, Paolino di Premariacco aggiungendo al nome anche la sua provenienza o il luogo di nascita.
Alla fine del primo millennio per tutta una serie di disastrosi eventi la maggior parte degli insediamenti nella pianura friulana sono abbandonati e in parte distrutti, lasciando in vita solo alcune realtà difendibili quali i castra, castella ed altre varianti. I villaggi superstiti vengono legati alla identità di “romans” cioè discendenti dalla civiltà romano longobarda.
Ogni anno, il 12 luglio, si fa festa a Udine per ricordare i Santi Ermacora e Fortunato, effigiati in Duomo da Giovanni Antonio da Pordenone sulle formelle dell’organo e da Giovan Battista Tiepolo su una pala d’altare.
Ermacora e Fortunato, il primo vescovo di Aquileia e il suo diacono, vissuti nel terzo secolo dopo Cristo, sono in realtà i patroni dell’antica Diocesi di Aquileia e oggi delle Diocesi di Udine e Gorizia che, dopo l’abolizione del patriarcato nel 1751, se ne spartirono l’eredità. (La Diocesi di Concordia-Pordenone ha per patro- no Santo Stefano).
Antico vessillo patriarcale del Friuli
La festa religiosa del Friuli, o meglio della parte del Friuli inclusa nell’antica Diocesi di Aquileia, esiste quindi da molti secoli, e per questo, nei primi anni Settanta, il 12 luglio fu scelto da don Francesco Placereani e da Etelredo Pascolo, autore ed editore, per la presentazione ad Aquileia delle traduzioni in friulano delle Sacre Scritture: i Vangeli (1970), il Messale (1971), il Nuovo Testamento e le Lettere degli Apostoli (1972). In tal modo il 12 luglio divenne la festa di tutti i parlanti in friulano.
E allora, perché il 3 di aprile è diventato la “fieste de patrie”? Perché con diploma del 1077, datato dagli storici al 3 d’aprile, l’imperatore Enrico IV fece del Patriarca d’Aquileia un principe dell’Impero: lo mise, quindi, a capo di uno Stato feudale, e da quel giorno il Patriarca fu chiamato a “governare”, cioè a organizzare un esercito per difendere lo Stato, a battere moneta, a riscuotere le imposte, ad amministrare la giustizia, a costruire e riparare ponti e strade, ad arginare fiumi e torrenti, a convocare a parlamento coloro che dovevano contribuire alle spese del governo, cioè il clero, la nobiltà, e la borghesia in forma- zione nelle cittadine in crescita lungo le strade commerciali (Tolmezzo, Venzone, Gemona, Sacile …) e a ridosso dei porti fluviali (Latisana, Portogruaro
… ). Nacque così uno Stato feudale più grande della Diocesi di Aquileia, perché comprendeva anche la Dio- cesi di Concordia fra Tagliamento e Livenza, che secondo alcuni rimase libero e autonomo per quattro secoli; noi preferiamo dire che fino al 1420 rimase “patriarcale”, cioè non soggetto ai potenti vicini, Venezia e Austria, ma durante il Trecento dimostrò anche la sua fragilità.
La festa del 3 d’aprile ha quindi un carattere politico, anche se il programma contempla sempre una messa in friulano.
La prima “Fieste de Patrie” fu celebrata in Aquileia nel 1977, per ricordare il novecentesimo anniversario del diploma imperiale, per iniziativa del gruppo ecclesiale di don Placereani e del Movimento Friuli, ai quali si unì il Comune di Gemona. Nel 1979 la festa fu organizzata da una quindicina di “clapis”, e dopo il 1986 fu assunta e gestita senza soluzione di continuità dall’Istitût Ladin-Furlan “Pre Checo Placerean”.
L’Istituto, con il sostegno della sola Provincia di Udine, a partire dal 1989 gesti annualmente la manifestazione in diverse località della Patria, arricchendola con una pluralità di eventi collaterali, e così l’appuntamento primaverile si trasformò in una tradizione, che ottenne il riconoscimento istituzionale e il sostegno della Regione Friuili Venezia Giulia per voto consiliare del 17 marzo 2015.
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Benvenuto Castellarin
Larês tal paradîs di Mortean . Questo detto popolare friulano lo si può leggere a p. 699 del vocabolario “Nuovo Pirona” , con l’aggiunta: che dovrebbe essere l’inferno . La prima edizione di questo vocabolario venne edita nel 1935. Qualche decennio dopo, il detto l’ho sentito modificato in questa forma: Fêt dal ben chi zarês in paradîs! Sì, ma a Paradîs di Torse . Forma quest’ultima detta da un cristiano cattolico credente che sembra mettere in dubbio l’esistenza del paradiso, cosa che ai tempi dell’Inquisizione equivaleva a venire denunciati a quel tribunale per espressioni eretiche, come capitò a un certo Giovanni Battista Zonga di Fraforeano che nel 1781 venne denunciato per aver dubitato dell’esistenza del Purgatorio.
Come stanno, dunque, le cose? Paradiso di Mortegliano o di Torsa? Per dirimere la questione bisogna chiedere aiuto alle fonti storiche. Una prima attestazione di un Paradiso la troviamo nell’anno 1339: Nicholao de Paradiso . Non sappiamo, però, se il citato Nicolao abbia avuto qualche attinenza con quel Paradiso che andiamo ri- cercando, essendo questo nome di luogo segnalato in Friuli nei comuni di Buttrio, Enemonzo, Ceresetto, Mereto di Tomba, Ovaro, e in altri luoghi.
Il nome, che in friulano è conosciuto sia come Paradîs , sia come Paravîs , com’è intuibile, richiama l’amenità del luogo, ma non mancano altre interpretazioni, si veda ad esempio il Dizionario toponomastico di Cinausero-Dentesano. Nella copia manoscritta dello schedario Corgnali che si trova presso Istituto di Filologia Romanza a Udine, che fu trascritto da Cornelio Cesare Desinan, troviamo: iuxta Paradisium- Mortegliano 1464 .
Lo stesso Desinan lo riprende in un articolo sull’Oltretomba e dintorni nella toponomastica friulana , a p. 145:
Il più noto tra i luoghi friulani chiamati Paradiso è quello fra Castions di Strada, Torsa, Pocenia (è nel territorio di tale comune) e Palazzolo dello Stella. È una borgata situata quasi sulla statale N. 353, con una nota azienda agricola e un altrettanto noto ristorante. Ne prende nome anche il Mulino del Paradiso . E’ detto anche Paradiso di Mortegliano , paese che in verità è posto più a nord. La prima documentazione è del 1464, iuxta Paradisium . Era, prima, un luogo acquitrinoso e coperto da boscaglie, perciò piuttosto un «inferno» che altro; poi fu sottoposto a migliorìe e a bonifica, per cui assunse di certo il nome attuale proprio per buon auspicio. Quale fosse il nome precedente non si sa: forse proprio «Inferno» o simili. Durante un congresso
di toponomastica, Carlo Alberto Mastrello avanzò l’ipotesi che per certi Paradiso si possa risalire a un originario Paludicio o Paludiso ; nel nostro caso un Paludis come base andrebbe tutt’altro che male. In ogni caso un eufemismo è più che probabile.
A nord-ovest c’è un toponimo che ricorda le antiche condizioni del terre- no, Palude di Mortegliano , e a nord anche una Selva dei Lupi (per entrambi v. l’IGM tav. «Castions di Strada»).
Perduta o quasi la coscienza di un’origine «paradisiaca» del toponimo, si venne a formare una spiegazione popolare: pare vis «ripara il viso», sottinteso dalle zanzare che abbondano in quei paraggi (informazione di Don Gilberto Pressacco). Naturalmente, è noto che in friulano «viso» si dice muse .
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Benvenuto Castellarin
Nel Friuli ex veneto il primo rilevamento catastale organico fu operato tra il 1807 e il 1813 durante il Regno d’Italia napoleonico. Il rilevamento delle proprietà e delle loro rendite, operato al fine di stabilire l’imposizione fiscale, fu, per le vicende che sconvolsero l’Europa nel 1815, un’opera incompiuta. Ai Francesi subentrarono gli Austriaci, e questi, dopo aver proclamato il nuovo Regno Lombardo Veneto e ridisegnato il comparto territoriale, ripresero le operazioni interrotte dai francesi. Nel 1826 dettero inizio alla fase operativa per la formazione del Censo Stabile che si concluse nel 1851 con la pubblicazione delle nuove mappe in fogli rettangolari e relativi registri. Iniziarono così i rilevamenti sul campo dei periti, coadiuvati dai delegati nominati dai rispettivi
comuni censuari. Compito dei periti e dei delegati fu quello di dare un nuovo assetto qualitativo dei terreni, con la divisione, ove era richiesta, in classi, di segnalare le variazioni intervenute dal primo rilevamento catastale e di offrire tutte quelle informazioni necessarie per una corretta compilazione degli atti occorrenti per la formazione del nuovo catasto. Gli atti, denominati Atti preparatori per la formazione del Censo Stabile , comprendono le “Nozioni generali territoriali”, le “Nozioni agrarie di dettaglio”, la “Qualità dei terreni” ed il “Prospetto di classificazione [dei terreni]”. Per facilitare il compito dei rilevatori era stato predisposto un dettagliato questionario, a cui delegati e perito erano tenuti a rispondere, che comprendeva le diverse situazioni che
potevano presentarsi. Inoltre, i deputati censuari avevano la facoltà di mettere a verbale le loro osservazioni nel caso in cui le risposte del perito non fossero esaurienti o non rispecchiassero sufficientemente la situazione.
Nel Comune amministrativo di Teor esistevano allora quattro Comuni censuari: Teor, Campomolle, Chiarmacis, Driolassa con Rivarotta. Tutti appartenenti al Circondario censuario n. 36, Provincia del Friuli, Distretto di Latisana . I delegati censuari per il comune di Teor furono: Gio:Batta Mazzaroli, Sebastiano Colovato, Flaminio Gallici , coadiuvati dal perito comunale Antonio Blasoni ; Per Campomolle: Geremia della Giusta, Osvaldo Comisso, Sebastiano Mauro , coadiuvati dal perito comunale Gio:Batta Mazzaroli ; Per Chiarmacis: Giovanni Gorgo, Ermacora Fabris , coadiuvati dal perito comunale Gio:Batta Mazzaroli ; per Driolassa: Gion Maria Dose, Giacomo Lestani , coadiuvati dal perito comunale Gio:Batta Mazzaroli . Le
operazioni di rilevamento terminarono il 28 agosto 1826, salvo che per Chiarmacis dove ebbero termine il 18 novembre dello stesso anno.
Dalla lettura di questi atti, in modo particolare quelli relativi alle “Nozioni generali territoriali”, dei quali qui diamo ampi stralci, emergono parecchie notizie, con dovizia di particolari, non solo sui criteri adottati per una nuova classificazione catastale dei beni immobili, ma anche sulla situazione ambientale, socio-economica e sulle pratiche agrarie in uso in quel frangente di tempo.
Il quadro che ne esce non è dei più confortanti: i cereali e le uve a causa delle piogge, la siccità, le grandini, si raccolgono imperfetti e immaturi; i fieni, ma soprattutto lo strame, li dovevano provvedere nelle zone adiacenti la laguna con grandi disagi e sacrifici dove le febbri erano pronte ad assalirli. Le strade in modo particolare quella che conduceva a Latisana, d’inverno diventava impraticabile, sopportabili erano quelle dirette per Codroipo e Palmanova ai cui mercati le popolazioni erano solite intervenire. Le case non erano sufficienti al bisogno dell’agricoltura, alcune erano comode di muro coperte di coppi, altre erano anguste e deformi. Sono descritti altresì i corsi d’acqua, i diversi modi del pagamento degli affitti, i quartesi spettanti al clero, le valute e le
varie misure e pesi usati allora in agricoltura.
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Franca Mian
I primi autorevoli teologi cristiani ebbero il titolo di “Padri della Chiesa”, perché ne furono maestri illuminati. Come filosofi ed esegeti realizzarono in modo du - revole la fusione dell’eredità classica con quella cristiana, dando avvio ad una nuova civiltà, che non si pone solo per il mondo greco-romano ma anche per quello che da esso ricavò l’evangelizzazione.
I loro scritti sono in genere, come quelli di S.Girolamo e di Origene, commentari e studi teologici, sistematico-storici, apologetici, sorti da una loro specifica e personale cultura nonché metodo di indagine e sintesi.
I rapporti culturali, come dimostra S. Girolamo, tra la latinità romana e l’Oriente non si esaurirono in statiche impostazioni: il problema religioso si era evoluto nel corso dei secoli, mentre i risvolti e le motivazioni connessi con esso si intrecciarono variamente sfociando in soluzioni talvolta simili, talvolta differenti. Anche il contrasto non rimase sterile, così come per il platonismo e l’aristotelismo; produsse infatti, per vie indirette o dirette ed in sfere determinate, imprevedibili e significativi effetti, che coincisero con i contenuti culturali e religiosi non solo classici.
La tradizione letteraria antica, compresa quella biblica, che fornisce il tessuto per la ricostruzione di fatti, vicende, aspetti religiosi, spesso frappose non lievi difficoltà ad una corretta interpretazione: ambienti diversi riflettono differenti impostazioni, scaturenti da sostrati culturali eterogenei e sconfinanti nell’ambito di peculiari ed alloglotte civiltà, che per certi aspetti poterono però divenire sovranazionali. Se nella discordanza di interpretazioni unilaterali e di parte, accostate e confrontate tra loro, ritrova senso un’indagine criticamente impostata, questa talvolta resta ostacolata dall’imprecisione dei tempi occorsi.
Ma qui si cerca qualcosa di noto e si colgono soprattutto gli elementi di dif- ferenti culture, la pagana, l’ebraica, la cristiana paragonabili, in un confronto per analogia o per contrasto, a contenuti desunti da esperienze avvenute per studio, rivelazione, pratica religiosa e pertanto includibili, per quanto qui ci interessa, nella sfera di cognizioni acquisite.
Nell’Impero romano dei primi secoli d.C. si stavano disfacendo le istituzioni giuridico-sociali, in un clima di confusione morale che sfiorava l’anarchia. Pertanto, ad es., il culto di Mitra, uno degli ostacoli più formidabili alla diffusione del Cristianesimo e presente anche ad Aquileia, riproponeva un ritorno a forme di naturismo primitivo, di cui un desiderio nostalgico serpeggiava in certi ambienti pagani legati alla terra, ma nello stesso tempo soddisfaceva esigenze di interpretazione di spinto razionalismo, in particolare sentito nelle menti più colte ed elevate. Per la sua connessione con il mazdeismo persiano, appagava in certo modo, sia pure ambiguamente, l’aspirazione del sentimento pagano ad una concezione evolu- ta del dio supremo 1 ; usava, in tal senso, la teologia
solare ed astrale, che gli derivava dall’influsso dell’erudizione caldea e babilonese e che corrispondeva perfettamente alla moda invalsa, soprattutto nel III sec. d.C., delle teorie cosmiche e dell’ideologia astrale. Presentandosi come dio solare, Mitra attirava, confondendole, anche forme di culto del dio sole, non prive di tradizione nel paganesimo occidentale.
Già la Roma repubblicana conosceva e venerava il Sol indiges . Quindi, con il suo ventaglio di appetibili proposte, il mitraismo ebbe larga presa in epoca imperiale e Severo Elagabalo le riproponeva tutte, forse sognando di unificarvi pure Ebraismo e Cristianesimo con la sua interpretatio romana del Ba’al solare di Emesa (Siria). Non da meno fu Aureliano che celebrò il trionfo del Sol invictus, trovando pieno consenso alla sua linea religiosa nella pubblica opinione. Pure Costantino, che non ruppe con il recente passato, probabilmente vi alluse nell’Editto di Milano del 313, rescritto di Nicomedia, ove si parla ufficialmente della “somma divinità, qualunque essa sia” nei cieli, per la quale ai seguaci si riconosceva libertà di culto. Vero è che le persecuzioni
riguardarono solo l’esclusivismo monoteistico cristiano, non altri. Pertanto il legislatore dell’Editto di Milano cercò un nuovo fondamento divino per l’Impero e lo trovò nel complesso concetto monoteistico su menzionato. Esso fu ritenuto, pare, confacente anche alle vedute cristiane, che non tardarono ad identificarsi con la summa divinitas pagana. Il primo passo verso l’avvenire era compiuto. L’influenza infatti che nell’atteggiamento delle autorità romane verso il cristianesimo esercitò il sincretismo religioso è fuori di dubbio, come la funzione preparatoria del sincretismo, specie solare, al monoteismo cristiano, pur con i pericoli che esso rappresentava per la nuova fede.
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Franco Rossi
Si ritiene utile pubblicare in questo numero della rivista un’anticipazione – certamente ridotta quanto a dimensioni ma assolutamente in grado di suscitare il dovuto interesse – della ricostruzione storica di una vicenda umana, particolarmente complessa e quanto mai straordinaria, che in una qualche misura è riuscita a dare una nota di colore alla vita sonnolenta e appartata della bassa friulana tra Lemene e Tagliamento nel corso dei decenni iniziali del Seicento. Una tranche de vie , insomma, rimasta finora del tutto ignorata e sconosciuta ai più, e che solamente grazie a una fortunata coincidenza di fattori, soggettivi e oggettivi al tempo stesso, è possibile oggi cogliere e valutare, almeno nei suoi tratti essenziali e fortemente caratterizzanti.
La singolare vicenda di Orsetta Durigutto sembra prendere inizio, salvo ulteriori e al momento difficilmente ipotizzabili ritrovamenti documentari, con la denuncia dettata l’11 dicembre 1621 al notaio di Portogruaro Girolamo Pasian da Assunta Francescutto (Sunta Francescut), conosciuta anche come Sunta furlana, originaria di Mortegliano e vedova di Antonio Barbon (Toni Barbon) di Orgnano di Udine, serva di camera della medesima Orsetta; denuncia, comunque, presentata al vescovo di Concordia, Matteo Sanudo, in un momento successivo ma in ogni caso anteriore al 29 settembre 1623.
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Benvenuto Castellarin
StemmaContiGorizia.png
Stemma in pietra dei conti di Gorizia
La [villa] Carmatis , è attestata nel concordio dei 1° agosto 1261 tra il conte di Gorizia e Glizoio di Mels. Ciò fa pensa- re che Chiarmacis appartenesse già al conte di Gorizia. Nel 1276 Dominus Conradus filius domi- ni Bertholdi del Sacilo riconosce di avere ad rectum et legale feudum tra gli altri beni anche XIII mansos in villa de Carmacis Nel 1299 lo stesso Corrado dichiara di avere l’intera villa: In primis villa Carmacis . Nel Necrologio chiesa Castelluto (secolo XIV) Chiarmacis è attestata sottovarie forme: Carmaccis, Charmacijs, Carmazes, Carmaceis . Nel 1330 alla morte del nobile Febo della Torre, veniamo a sapere che possedeva un manso in Camaces iuxta Palazolum , dove Iulianus pagava di affitto
IIII staria frumenti, V staria an- none, II staria millei, II urnas vini, XXI den. II gallinas, XXX ova, I spatola et X brotula 9 lini . Il 27 aprile 1466, Chiarmacis venne conferita assieme ad altre ville da Leonardo conte di Gorizia al nobile Giorgio di Codroipo cittadino udinese: Nos Leonardus Dei Gratia Palatinus Karinthiae Co: Goritiae et Tirolis, nec non Ecclesiarum Aquileiensis, Tridentiensis, et Brinxiensis Advocatus. Notum fieri volumus, et manifestum universis, et singulis has nostras paginas inspecturis cum nos, apud nos ipsosque heredes, et successores, maturo in hoc prehabito consilio, ac deliberatione fidelium Nobis Consulum Nostrorum de Nostra speciali gatia in rectum et legale feuduni contulimus, concessimus atque inuestimus Nob. Subditum Nostrum. Georgium de
Quadruvio Civem Utinensem. ibidem existentem, presentem, et supplicante m prò sè et heredibus suis, et successoribus, Partem Nostram Castri Casteluvi iamdudum destructi, desolati, et in pustota, cum garitu, et omnibus Terrenis, Campis, Vineis, si quod sunt, Silvis, Pascuis, Aquis,etc […] et cum garitu Iurisdictionibus infrascripta- rum Villarum, videlicet: Flambri inferiori, Sivigliani, Chiarmacis, Mandatioli, Rivatae, nec non cum Villa Salti [Falti] desolati iamdudum, et destructi seu partes ad Nos spectantes eiusdemque Territorij ,[…]. Carlo Morelli nella sua Istoria della contea di Gorizia, scrive che Marano acquisita per sorpresa nel 1514 veniva ugualmente per sorpre- sa perduta nel 1542. Di fronte a questo acquisto vi sta la perdita di un territorio bastatamente esteso che si
fu costretti di cedere ai Veneti nelle parti di Sivigliano, Muzzana, Mortegliano, Codroipo, Belgrado, Castelnuovo, Gorizia, Virco, Flambro, Chiarmacis, Roveredi di Torso, Latisana ed altri luoghi che prima avevano spettato al dominio dei conti di Gorizia . In questo periodo Chiarmacis venne acqui- sita dalla famiglia nobile friulana degli Strassoldo: nel 1548 è attestato un Zuan Ioseppo de Strassoldo . Ancora nel 1804 nella statistica promossa dal Regio Governo austriaco, Chiarmazzis si dichiara essere: Villa soggetta alli Strassoldo di Daiello . Vi si aggiunge poi che la diocesi e quella di Udine. Ed inoltre: In qualità di Cappellano è il Reverendo Don Domenico Nardino con cura d’anime, pagato dal comune. Le pertinenze di questa Villa da Levante a Ponente
sono circa mezzo miglio, da tramontana a mezzodì un miglio e un quarto. Ha l’obbligo il Comune sul detto fiume Stella di mantenere due ponti .
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Renzo Casasola
Il carteggio di questo processo criminale del XVIII secolo raccoglie i verbali rogati tra l’Ufficio Penale Giusdizionale dei conti di Colloredo, la cui sede era po - sta nell’omonimo castello comitale, e la villa di Muzzana alla cui giurisdizione era soggetta. La fase istruttoria ha inizio il 19 agosto 1715 con la denuncia formale colà presentata da Vicenzo Michiluto, uno dei tre degani del Comune, e termina in data posteriore al 2 dicembre 1716, data dell’ultimo verbale a noi noto.
Il processo vede contrapporsi le tesi probatorie dell’accusa, nella persona del signor Francesco Pascoli del fu Gio Battista, esponente diciannovenne della piccola borghesia di Muzzana e parte lesa, contro l’insostenibile difesa del villico Domeni- co Negro del fu Domenico, suo coetaneo. Quest’ultimo è accusato dal Pascoli di averlo ferito ad un braccio con un coltello per futili motivi. Dalla dichiarazione del degano si viene a conoscenza che la rissa tra i due aveva avuto luogo venerdì 16 ago- sto 1715, giorno di San Rocco, nella villa medievale di Muzzana presso la casa avita del Pascoli, inserita tra l’attuale piazza S. Marco e il settore occidentale di vicolo di Sotto. Il Negro – dichiarò all’auditore il signor Michelutto - dopo essere stato in- giuriato e colpito alla testa da un
paio di pugni sferrati dal Pascoli, anch’egli spinto a tale violenta azione da futili motivi, reagiva a mano armata con un coltello stillato colpendolo con violenza più volte al braccio. La vittima, nel tentativo di difendersi e parare i colpi, subiva perciò una profonda ferita da taglio al gomito sinistro con effusione di sangue e successiva impotenza funzionale dell’intero arto.
Lunedì, 19 agosto 1715. Nel Castello di Colloredo.
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Comparse Vicenzo Michiluto, degano del Comun di Muzzana. Quale per iscarico del suo debito, compagni e Comune, denunciò: Come che venerdì, pros- simo passato, circa l’ora di mezo giorno che fu li 16 corrente fu ferito il signor Francesco quondam Gio Battista Pascoli, nella comisura del gomito dalla parte di fuori dal brazzo sinistro, con effusione di sangue.
Interrogato, da chi o da quali fusse stato ferito, rispose: “È stato ferito da Domenico quondam Domenico Negro.
Interrogato, per qual causa l’havesse poi ferito, rispose: “Domenico era sopra la strada pubblica, a rimpetto alla casa del Pascoli, e volendo detto Pascoli arlo andar via di là, detto Negro gli rispose che era padrone di stare nella pubblica strada e il Pascoli gli alimenò un schiaffo e poi un pugno e … anco dargli delle pedate, e per grazia io feci nella forma deposta”.
Interrogato, che testimoni tenesse, rispose: “Alessandro del Drea, detto Castellano, e Marchiol Cassinoto”. Da questa dichiarazione par di cogliere il palese tentativo di prevaricazione esercitato da un esponente della borghesia locale nei confronti di quello che viceversa era considerato un semplice villico. Del fatto fu subito avvertito il medico chirurgo Diomede Tottis che medicò la vittima e stilò il referto medico. Adì 16 agosto 1715.
Medicai in detto giorno, ut supra, il signor Francesco Pascoli quondam Gio Battista, d’età d’anni vinti, circiter. Ferito di punta di coltelo stilato, o arma simile, nella comisura del gomito dalla parte di fuori dal brazzo sinistro. Tagliata [la] pele et carne penetra fra ligamenti sino all’osso del facile di detto bracio, et di lungheza una bona ponta di dito, stante l’alteratione e diseguaglianza della parte lesa. Dubitati che possa esser semiferito l’uno de’ tendini, o muscolo, onde potrebbe correre qualche rischio di ritiramento e di restar strepito al moto. Il fatto disse che seguì hoggi a mezo giorno in Muzzana, havanti la sua porta su la strada.
Il tutto detto con giuramento.
Diomede Tottis, medico.
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Luca Vendrame
L’estremità settentrionale del comune di San Michele al Tagliamento appartiene alla frazione di Villanova della Cartera, località che, per distinguerla dalle altre “villenove”, ha inserito nel nome l’indicazione dell’opificio idraulico più caratteristico della zona: un’antica cartiera.
La storia industriale di questo sito è già stata indagata, per quanto possibile data la scarsità di fonti, fino al Ventesimo secolo; infatti la carenza di documenti ha contribuito ad avvolgere nella nebbia gli accadimenti dell’età moderna. Un piccolo sprazzo di luce può ora contribuire ad illuminare un po’ meglio, almeno per la seconda metà del XVII secolo, la storia del sito 2 . Pur essendo la produzione e l’esportazione della carta uno degli aspetti più rilevanti del commercio veneto del XVII e XVIII secolo, e pur essendo imponente la quantità e qualità di documentazione sull’argomento conservata presso l’Archivio di Stato di Venezia, del sito proto industriale di Villanova non c’è traccia nelle approfondite rilevazioni dell’epoca, effettuate soprattutto a fini fiscali 3 .
Probabilmente ciò è dovuto al particolare status della Giurisdizione latisanese.
Come spesso accade la documentazione conservata e a noi pervenuta deriva da una lite ed è stata prodotta a fini processuali da una parte in causa. Una considerazione preliminare, da tener presente per comprendere le carte, riguarda appunto la particolare situazione giurisdizionale del territorio sanmichelino, all’epoca parte integrante della Giurisdizione di Latisana, feudo con molteplici particolarità e detentore di larghe autonomie amministrative (quasi uno “Stato nello Stato”), oggetto di lunghe e complesse controversie sulle prerogative feudali con gli uffici della Serenissima e al centro di dispute internazionali.
I protagonisti della nostra piccola storia - le parti in causa - sono Giovanni Mocenigo di Nicolò del ramo di San Eustachio e don Pietro Faggiani, pievano di Pramaggiore.
Il fascicolo inizia con la convocazione, effettuata dal Capitano Cristoforo Caimo, di don Pietro entro 15 giorni a partire dal 5 settembre 1685, presso gli uffici giudiziari della Terra della Tisana, in quanto conduttore in affitto della cartiera e della sega di Villanova di Latisana, di proprietà del Mocenigo.
Il motivo del contendere è spiegato in data 20 settembre 1685. Nel documento si legge che i Giurisdicenti di Latisana Zuanne Loredan, Giacomo Contarini e Antonio Morosini hanno accolto l’istanza di Giovanni Mocenigo e dichiarato colpevole don Faggiani di non aver pagato la rata d’affitto, stabilita in 100 ducati, per gli edifici della cartiera e della sega.
La sentenza fu eseguita il 29 gennaio 1686 dal trombetta > (un pubblico ufficiale con molteplici funzioni: in questo caso la confisca dei beni) Lorenzo Morari che, recatosi a Pramaggiore presso l’abitazione del pievano in compagnia del locale po- destà e del notaio Quintilio Carlo, si fece aprire dalla serva Angelina e descrisse i beni sequestrati. In cucina trovò una credenza di fagara (faggio) con cassetti e serratura, una toletta (piccola tavola) in nogara (noce) con cassetto e serratura, sei scagni (sgabelli) in noce con pozzo (poggioli per le braccia) e una vecchia tavola. In camera elencò un letto in faggio con paiazo stamazo (materasso riempito con cartocci secchi del mais) e capezal in lana
(guanciale basso e stretto), un oratorio in noce, un vecchio forziere, un tavolo e un brentello (piccola botte) capace di circa tre orne (se a misura di Portogruaro sono circa 275 litri). La stalla ospitava un cavallo rosso di pelo, due manzi e la carcassa di un animale (non specificato) da poco macellato, ancora da salare, dal peso di circa 100 libbre (circa 48 Kg). La teza (il fienile) contenevaun carro e mezzo di fieno (un carro corrisponde a 1600 libbre quindi nel fienile c’erano circa 1145 Kg). La rendita del pievano era invece fornita dai 12 campi arativi di ragione della chiesa , che rendevano però solo 6 stara di frumento perché solo 3 o 4 campi venivano lavorati. Un campo corrisponde a 3505,83 m2 , (quindi i 12 campi
corrispondono a circa 4,2 ettari; lo staio era la misura di capacità per aridi pari a 73,16 litri). Ad integrazione la comunità parrocchiale garantiva al parroco ulteriori 8 staia di frumento e 8 orne di vino.
I beni elencati furono sequestrati dal Luogotenente il primo febbraio, una volta ricevute le dovute certificazioni sulla legittimità degli atti compiuti; il motivo è – ricordiamolo – che il foro feudale di Latisana agiva in modo autonomo rispetto a quello del Luogotenente di Udine, rettore del Friuli veneto. La questione era perciò piuttosto complessa in quanto il Faggiani era a tutti gli effetti un cittadino veneto e per giunta ecclesiastico, mentre il Mocenigo agiva non da patrizio veneto ma come appartenente alle famiglie che governavano un feudo dalle amplissime autonomie, quasi paragonabili a quelle di uno stato indipendente; cosa forse normale per l’antico regime, ma oggettivamente strana a giudicare con i criteri del XXI secolo.
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Benvenuto Castellarin
Che la chiesa di Campomolle sia stata, fin dall’antichità filiale della pieve di santo Stefano di Palazzolo, lo si deduce da un documento del 1247, pubblicato nelle Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV – Venetiae-Histria-Dalmazia , Città del Vaticano MDCCCCXLI, a cura di Pietro Sella e Giuseppe Vale a p. 23. In tale documento, riportato anche da Giuliano Bini nella sua approfondita opera “… Sanctorum Steffano et Laurentij alterius Patroni”. La Chiesa nella storia millenaria di Palazzolo , Pasian di Prato (UD) 2013, p.17. In questo documento,fra le altre ville che componevano la pieve vi è anche Villa Caperioli , che non può essere che un chiaro riferimento a Campomolle.
La chiesa di Campomolle dedicata a San Michele Arcangelo rimarrà per molto tempo cappellania della pieve di Palazzolo.
Della cappellania o curazia di Campomolle si parla nella visita pastorale effet- tuata dal vescovo Bortolo di Porcia su incarico dal patriarca di Aquileia Giovanni Grimani nel 1570. Di questa visita ne fa la cronaca con numerose considerazioni Antonio Battistella in un articolo pubblicato nelle “Memorie storiche forogiuliesi”, dal titolo: “La prima visita apostolica nel Patriarcato aquileiese dopo il Concilio di Trento”, vol.III, del 1907, p. 84 e segg. L’articolo continua nel vol. IV , p. 17 e segg. Nelle pagine 20-22, il Battistella pubblica un prospetto dove sono segnate le parrocchie, vicariati e i loro borghi il numero delle famiglie ed il numero delle persone che erano in età di comunione.
Mentre per Driolassa vi è la nota dipendente da Palazzolo nello Stato veneto , per Rivarotta e Campomolle questa nota non c’è. Ciò farebbe presupporre che Campomolle con le sue 12 famiglie e con 40 comunicanti non fosse più una filiale della pieve di Palazzolo.
Pare che così non fosse se il Bini nella sua citata opera a p. 25 scrive: 1595 […]. Il vicariato di Palazzolo aveva soggette le ville di Palazzolo, Piancada, Precenicco, Titiano, Pescarola, Rivarotta, Chiarmacis e Campomolle. Le ville imperiali e le chiese di Precenicco, Pescarola e Titiano erano soggette ad un capellano probabilmente legato all’ordine dei cavalieri teutonici […] Rivarotta era cappellania di Giacomo Fontana, probabilmente di Teor, Driolassa aveva come cappellano Mathia Pilutto di Rivignano e Campomolle Jacomo Zanotto Somanso, che forse era Romanso o di Romans . In una successiva registrazione datata 1632 si attesta che “La Pieve di Palazzolo hà le sottoscritte Ville per soggiette e filiali […] la 7 Campi Molli ” (Giuliano Bini, Ibidem , p.26).
il Bini osserva però che: Da tempo la pieve [di Palazzolo] era divisa in vicariato. Curazie e cappellanie. Il vicariato ormai era una curazia con qualche vaga funzione di rappresentanza. Le curazie avevano ottenuto col tempo una notevole indipendenza, se si esclude l’aspetto economico (il quartese), l’investitura e qualche pratica formale. Le cappellanie dipendevano dal vicariato e in qualche caso da qualche curazia (Giuliano Bini, Ibidem , p.26). Le chiese della villa imperiale di Campomolle unitamente alle altre di Rivarotta e Driolassa scompariranno dall’elenco delle filiali della pieve di Palazzolo nel 1662 come risulta da una Nota delle Ville della pieve di Pallazzolo, pubblicata dallo stesso Giuliano Bini a p. 28 della citata opera.
Nel 1676, come si annota nel 1° registro dei battesimi della parrocchia, a Campomolle vi erano in tutto 125 persone tra cui uomini di comunione 33, donne di comunione 40, putti 30 e putte 22 .
Nel 1678 è attestato il primo decesso di un parroco: Rev. Don Domenico Nardini .
Nel 1751 avvenne la soppressione del patriarcato di Aquileia e la costituzione di due arcivescovadi di Udine e di Gorizia. La parrocchia di S. Michele Arcangelo di Campomolle, come le altre a parte Imperii, fu posta sotto la giurisdizione della diocesi e arcidiaconato di Gorizia, decanato di Driolassa.
Le parrocchie della Bassa Friulana appartenenti all’arcidiocesi di Gorizia con i decanati di Drio- lassa, Ontagnano e Visco. Particolare della carta pubblicata in: Carlo M. d’Attems. Atti delle visite pastorali negli arcidiaconati di Gorizia, Tolmino e Duino dell’arcidiocesi di Gorizia, a cura di Franc Kralj e Luigi Tavano, Gorizia 1994, LXXIII.
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Enrico Fantin
Con una sentita partecipazione della comunità latisanese, riunitasi nel Duomo cittadino sabato 20 gennaio 2024, ha voluto festeggiare e ricordare il secolo del suo campanile inaugurato proprio cent’anni fa, il 20 gennaio 1924. Promotore dell’iniziativa il prof. Pier Giovanni Moro che con l’appoggio di mons. Carlo Fant Abate Pievano di Latisana, con il patrocinio del Comune di Latisana, nonché dall’Asso- ciazione “Amici del Campanilio”, della “Pro Loco di Latisana”e dell’Associazione “la bassa” hanno ricordato la costruzione della “Torre” dopo l’abbattimento del vecchio campanile avvenuto il primo di novembre 1917 da parte dell’esercito italiano al fine di non lasciare all’invasore austriaco un osservatorio strategico. Sono intervenuti alla cerimonia, oltre all’Amministrazione Comunale
di Latisana, gli eredi dell’impresa costruttrice fondata da Alvise Petrucco e dai fratelli Giovanni e Cesare Costantini, con sede a Cividale, presentati dalla prof.ssa Sabrina Tonutti. Per i lavori di restauro eseguiti nel 1997, presenti l’impresa specializzata Del Bianco e i progettisti ing. Ernesto Ambrosio e l’arch. Dario Formentini. Una bella e interessante mostra fotografica con documenti inediti, curata da Bruno Lus, ha completato in modo esemplare la ricorrenza.
Duomo di Latisana, 20 gennaio 2024. Autorità, eredi impresa costruttrice e relatori in una foto di gruppo
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Benvenuto Castellarin
Il territorio del comune di Teor è intersecato da vari corsi d’acqua, il più importante dei quali è lo Stella. Anche se per diversi mulini rimane dubbia la posizione originale poiché con il tempo e le continue trasformazioni ne hanno cancellato spesso le tracce, lungo il corso di questo fiume da Codroipo a Palazzolo dello Stella, i mulini ad acqua presenti nel passato erano diciassette di cui ben cinque nel territorio del comune di Codroipo e tre a Palazzolo, altri tredici circa si trovavano lungo i vari affluenti. Questo rende l’idea dello sfruttamento “intensivo” del pre - zioso elemento dell’acqua, vitale non solo per la sopravvivenza di uomini, piante e animali, ma anche complementare all‘agricoltura di quel tempo ad un certo tipo di economia e, quindi, ai mulini. I mulini
idraulici ressero bene per secoli, poi con l’avvento di nuove forze motrici e dell’industrializzazione, furono trascinati in una crisi irreversibile cosicché essi, uno alla volta smisero di macinare.
Il mulino di Chiarmacis tratto dalla mappa “Caseggiato orti e giardini della Comune di Chiarmacis. Dipartimento di Passaria- no” (Archivio di Stato di Udine, Mappe catastali a scala ridotta 1811-1821).
La prima attestazione su un mulino esistente nella nostra zona si trova nel documento della cosiddetta “Donazione sestense” dell’anno 762. In quell’anno, infatti, i fratelli Erfo e Marco dotano di molti beni i monasteri, da loro fondati assieme al fratello Anto, di S. Maria in Silvis di Sesto (al Reghena) e di Salt o Salto presso Cividale Fra i diversi beni donati vi è anche la proprietà e rendita di un mezzo mulino in Palazzolo. Nella nostra zona, nel XIII e XIV secolo troviamo presenze di mulini ad Ariis (1226), a Fraforeano (1275), a Muzzana (1240), a Varmo (1292), a Flamruzzo (1297), a Bertiolo (1300), a Virco (1312), a Rivignano (1341), a Belgrado (1344).
In merito ai mulini presenti nel comune di Teor, secondo i documenti da noi esaminati il più antico documentato, ma probabilmente già esistente in precedenza, è il mulino di Chiarmacis , attestato nel 1560. Infatti, Soldoniero di Strassoldo nella sua “Cronaca”, in quell’anno ebbe ad annotare: in su le nostre ripe del Roial di sopra del molino di Chiarmaciz .
Una tradizione locale, però, narrata da Giovanni Forni, ci parla della utilizzazione del guado [sul fiume Stella] perlomeno fin dal XV secolo, quando i coloni di Pocenia andavano a far macinare il grano rubato nei terreni del Savorgnan, signori del luogo, al di là dello Stella nel mulino di Chiarmacis evitando così di recarsi presso il molino pubblico di Pocenia, proprietà degli stessi Savorgnan .
Nel 1572 troviamo attestato un Bidino molendinaro in Chiarmacis . Nel 1603, come si apprende da una nota della citata “Cronaca”, il mulino di Chiarmacis fu al centro di una causa tra Soldoniero e Bernardino di Strassoldo. Soldoniero, infatti, scrisse: Adì 20 setembrio. Nota che lo signor Bernardino Strasoldo, litigando con mi ne la causa del molino di Chiarmazis per occasione de li stara 3 di formento.... .
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Mauro Buligatto
Si prende suggerimento dalla tesi di laurea magistrale in filologia e letteratura italiana, a cura di Ester Borsato, per l’anno accademico 2016/2017-Uni- versità Ca’Foscari di Venezia. Uno studio vertente su Il lessico navale del libro di Michele da Rodi - Glossario dei termini marittimi e costruttivi . Da tale repertorio abbiamo estrapolato una serie di lemmi che fanno parte della lingua friulana, sia pure questi ultimi risultino usati in ambienti estranei alla cantieristica navale.
L’analisi inizia con il termine gotico bandwja >banda . Esso va a descrivere il “pezzo di legno longitudinale”, impiegato di norma a latere dello scafo. Proprio tale modalità d’uso avrebbe concorso a identificarlo tramite questa voce. Conferme di significato provengono sempre dal dialetto veneziano ove banda è, più in generale, il “lato-fianco dell’imbarcazione”. A bordo, nel linguaggio di comando e manovra, esistono le locuzioni banda diritta “a destra guardando la prua”, banda a sinistra , riferendo l’opposto significato. In aggiunta c’è ‘ndar a la banda , cioè il “procedere di uno scafo con un’anomala inclinazione trasversale”. Pure in friulano bande si associa a “lato-fianco”: le bande-bandinele dal cjar , a indicare la
“sponda laterale del pianale”.
Ma veniamo a un secondo valore che la parola ha, cioè quello di “lamie- ra”. Esso è rinvenibile pure in Friuli, insieme all’accrescitivo bandon . Nella parlata comune il termine italiano banda è associabile anche a latta “sottile lamiera”, i cui aspetti specifici però li illustreremo più avanti. Riassumendo si può indicare quanto di seguito. Nel friulano bande è collegabile a un qualcosa di metallico, piatto e di minimo spessore: frazioni di millimetro o poco più. Ecco allora locuzioni del tipo di cjoi su chel toc di bande chi fasìn quatri sàibis “prendi quel pezzo di lamiera che ne ricaviamo quattro ranelle” oppure sàgome un do’ plèchis di bande di meti sot par rinfuàrz “sagoma un paio di placche di lamiera che le mettiamo sotto a rinforzo”.
Approfittiamo per aggiungere che pleche >plache sono lor sinonimi, così come plote : tutti aventi valore comune di “piastra, base di metallo e lastra”. Non ci si scosta di molto con bandon , visto che l’accrescitivo esplica l’estensione concettuale di “lamiera con superfice e spessore maggiormente apprezzabili”. Ancora prendendo dall’uso lessicale citiamo: ai comedât il cuviart da le tieze doprânt quatri bandôns “ho riparato il tetto del fienile usando delle lastre in lamiera”. Per quanto spetta l’etimologia il Pianigiani nel suo Vocabolario Etimologico Della Lingua Italiana (di seguito VELI) riporta le diverse ipotesi di attribuzione per banda . Quelle che potrebbe aver avuto e ora assume, nelle più svariate lingue: passate e odierne.
Proprio a riguardo delle molteplici assegnazioni di significato abbiamo avuto l’opportunità di constatare i riferimenti a vincoli di parentela, intendendo propriamente il “legame” e gli elementi costituenti la famiglia, quali “congiunto-parente-affine”. Nell’elencazione si include poi l’azione di “legare” nonché gli strumenti che la permettono “fune-cavo”: ben- da e binda sono affini pur assumendo altri sensi. Poi banda va a identificare, come collettivo, le “unioni di più persone”, indipendentemente dalla natura dell’aggregazione: “banda musicale, di soldati irregolari” e così via.
La voce latta in origine individuava l’asse di legno, anche di piccole dimensioni, con spessore minimo. Il Pianigiani nel suo accurato repertorio di informazioni richiama l’attenzione su questo primigenio valore, traslato in seguito a usi specialistici. Infatti in marineria si riscontrano più utilizzi della parola.
Latta è l’elemento trasverso strutturale dello scafo. Contribuisce alla formazione dello scheletro, il corbame, e costituisce il raccordo superiore alle ordinate. Su queste ultime si fissavano le varie tavole piane per la formazione delle murate: il cosiddetto fasciame. Sulle latte invece si andavano a inchiodare gli assiti di copertura del ponte 5 . Il sostantivo singolare bàglio è suo sinonimo. La parola era usata altresì per definire il “blocco per alberi di nave e altre parti di essa”. Gli omologhi esteri rispondono a lata dello spagnolo e portoghese, al francese lattes all’inglese lath>(P)latte , in forma aferetica, così valevole anche per il tedesco (tipo germanico o gallico?).
Franca Grosso
“No sai ben ce che e je la poesie, o provi dome a cirîle. Ma, des voltis, e je jè che mi cîr me. ”
Con queste parole Giovanni Laurino Nardin iniziava, nel 2002, la sua avventura poetica, con la pubblicazione della sua prima raccolta di versi “Prime dal nuie”.
Nardin vive a San Vito al Torre; ha trascorso una vita nella scuola, prima come docente di Lingua Francese nella scuola secondaria, poi come dirigente scolastico (Palmanova, Aiello, Gonars, Cervignano).
All’Università della Terza Età di Palmanova da molti anni tiene i corsi di Lingua e letteratura francese e di Lingua friulana.
Scrive su diverse riviste, interessandosi soprattutto alle questioni relative alla lingua friulana, alle espressioni peculiari di questo idioma, ma non solo di questo: è un vero e proprio cultore del poeta romano Giuseppe Gioacchino Belli, di cui ha indagato a fondo, in vari convegni, i sonetti in romanesco, salaci e irriverenti contro il Papa e la nobiltà papalina dell’Ottocento.
Ha scritto molto, Nardin, e non solo poesia; ha partecipato a vari concorsi, ha vinto parecchi premi, non solo per la poesia, ma anche per racconti e testi teatrali (San Simon, a Codroipo; Caterina Percoto, a Manzano; Gjso Fior a Verzegnis): si è classificato bene anche al Premio Nelso Tracanelli di San Michele al Tagliamento, al quale ha partecipato due volte (segnalazione nel 2017 e secondo premio nel 2019).
E’ ormai giunto alla pubblicazione dell’ottava silloge poetica: la prima (2002) si intitolava “Prime dal nuje ”; e poi, via via, Il discori dal timp, Sul ôr des peraulis, La rispueste di Caront, La briscje sflandorose, Cheste voie che o vin, La lune e sirenis . L’ultima, uscita in gennaio 2024, si intitola “Sicu aiar lizêr”: Come vento leggero (citazione letteraria da Virgilio, Eneide, Canto VI): così come Enea vede sfuggire il simulacro del padre Anchise, così il poeta scruta il mondo dei suoi antenati, le cui ombre si fanno sempre più labili e si perdono nell’oscuro antro del passato.
Le composizioni in versi permettono a Nardin di cimentarsi nella sperimentazione di immagini simboliche e linguistiche che fotografano la realtà presente e passata del Friuli, con effetti di alta poesia; le opere in prosa, invece, evidenziano un’altra vena espositiva dell’autore: quella sorridente e leggera del narratore di episodi grotteschi o paradossali, con giochi di parole, con sottintesi e con equivoci linguistici che muovono al sorriso.
A questo proposito, senz’altro i lettori de la bassa hanno avuto modo di leggere i racconti dello Strolic furlan 2024: ogni mese riporta testi di vari autori friulani, tra cui, appunto, quelli di Laurino Nardin: si tratta di brevi racconti ironici, ai limiti del sogno, dell’esagerazione, sempre condotti al confine tra il serio e il faceto. Lo stesso timbro si riconosce nei brani pubblicati sul sito Contecurte: episodi spassosi e burloni che evocano un mondo semplice, nel quale le parole ed i loro molteplici significati si prestano a benevole canzonature.
Il tono e l’atmosfera, invece, cambiano nelle composizioni in versi; sono frut- to di un terreno costituito dalla cultura delle lingue e dei dialetti, ma soprattutto dall’amore per la lingua friulana, che il poeta riesce a declinare in sfumature impensabili in questo nostro idioma aspro, roccioso e che pareva adatto soltanto ad una civiltà eminentemente contadina.
Gli effetti che il poeta riesce a produrre nei versi sono originali, suggestivi e mai edulcorati od oleografici, anche se nascono da un sottofondo di nostalgia, per atti- mi (marilamps<(em>) di serenità che oggi non possono ripresentarsi più.
I temi che corrono sulle pagine spaziano dalla natura, vista e vissuta come parte integrante del mondo umano: piante, alberi, sassi del Torre, cime innevate, cieli nevosi invernali o scuri di temporale: partecipano tutti del comune destino esisten- ziale, costituito dalla sofferenza quotidiana delle creature e da brevi, troppo brevi momenti di felicità.
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Renzo Casasola
A Muzzana del Turgnano il 21 gennaio del 2024 c’è stata la ricorrenza del 1200° anniversario della prima citazione del fundum Mucianum , apparsa in un regio atto rogato per mano di Ludovico il Pio, figlio quartogenico di Carlo Magno, re dei Franchi ed imperatore del Sacro Romano Impero. Un personaggio illustre dunque, che con quella prima donazione in allodio del fundum fiscale , a beneficio del patriarca di Aquileia Massenzio, dette inizio a dodici secoli di storia scritta e documentata, che molti comuni della Bassa Friulana non possono vantare. Si potrebbe aggiungere, inoltre, che con quella ebbe inizio lo stato feudale e il feudalesimo in Friuli. In quel regio atto si fa già menzione all’assetto urbano del “… fundo Muciano cum domibus, casalibus, aedificis,
terris, vineis, pratis, silvis, … ”, della villa rustica che appare già ben strutturata nel contesto della bassa pianura friulana adagiata lungo la via consolare Annia tra la Cornariola/Turgnano e la roggia Mulvis/Muzzanella. Un territorio fertile il suo, ricco di acque, selve ed approdi fluviali, inserito tra la linea inferiore delle risorgive e la frangia di costa dell’Alta laguna di Marano che già appartenne all’augustea X Regio et Histria . Si trattò allora senza dubbio di una donazione di rilievo, ambita e produttiva ai fini dello sviluppo e della futura affermazione dello Stato Patriarcale Aquileiese.
La recente pubblicazione poi dell’ultima fatica di Tiziana Cividini e Paola Maggi, autrici di “Presenze Romane nel Territorio del Medio Friuli ”. 14 Muzzana del Turgnano, edita dal PIC nel dicembre 2022, con una trentina di siti archeologici documentati in tale epoca retrodatano la presenza umana nel nostro territorio di almeno un millennio. Ed ancora più in là si potrebbe volgere lo sguardo nel profondo ed oscuro passato del neolitico con la documentazione di un’infinità di reperti selcinei, ceramici e metallurgici ivi raccolti nei decenni passati da indagini di superficie. Tracce tangibili della presenza umana che attestano millenni di vite sofferte e vissute tra le ombrose selve e la laguna.
Un buon motivo ed un’ottima occasione , senza dubbio, quella sarebbe stata per cogliere l’opportunità per rinfocolare il senso di appartenenza ad una comunità e dare il giusto valore istituzionale a questa ricorrenza. Ma i tempi ‘bui’ Basso Medievali paiono non essere affatto finiti ed ancora allungano le loro sinistre e oscuranti ombre nella evanescente memoria della locale società civile del XXI secolo. E se la memoria storica popolare difetta, ben viva e vegeta appare quella ideologica che ancora divide e separa ciò che viceversa dovrebbe unire, non fosse altro per i comuni valori morali e sociali che dovrebbero legare l’antica alla contemporanea società civile.
Si deve perciò alla locale e giovane Associazione Culturale ORUS il merito e l’onere di aver colto la vacante opportunità storica ed organizzare l’evento che si è svolto in “Villa Muciana ” nella serata del giorno 12 gennaio alla presenza di un pubblico selezionato, attento e partecipe. Allo scrivente è toccato l’arduo compito di sostenerla e in un paio d’ore esporre in sintesi, con la proiezione di oltre un centinaio di ‘slides’, questo lungo e travagliato percorso della memoria. Dalle prime attestazioni antropi- che del Mesolitico Recente, si è spaziato poi all’Età del Bronzo e al periodo romano, e da quello alla toponomastica longobarda, non sono mancati i punti di interesse sui quali, per ragioni di tempo, non s’è potuto dare lo spazio dovuto. Una doverosa attenzione è poi
stata rivolta a quel primo documento dell’824 d.C. per introdurre il periodo patriarcale e le trecentesche mortali liti dei locali villici a difesa dei propri confini naturali minacciati da quelli bellicosi e invadenti di Mortegliano. Ed ancora s’è discusso delle vessazioni fiscali esercitate dai feudatari locali, dai canonici di Aquileia e dalla Serenissima Repubblica di San Marco, sulle terre e sui beni comuni. Non poteva mancare un accenno storico su quanto accadde ad Osoppo il 2 marzo 1514, quando gli uomini di Muzzana, senza distinzione d’età, furono accecati ed orbati dal generale austriaco Cristoforo Frangipane, nell’ambito della guerra tra gli Asburgo e Venezia per la rivendicazione della Contea goriziana e del Friuli. La villa fu saccheggiata e poi data alle fiamme. Gli uomini
accecati solamente per essere ‘marcheschi’, cioè fedeli a San Marco. E si potrebbe sottolineare l’impatto deleterio sulla società civile del XVII e XVIII secolo allorché proprio Venezia, matrigna affatto riconoscente di quell’infernale e crudele rappresaglia, sequestrò alla villa senza contradditorio buo- na parte dei suoi beni comunali. E poi la sua caduta e l’avvento di Napoleone, e dopo di lui mezzo secolo di dominio austriaco per giungere infine allUnità d’Italia.
Ricordare e trasmettere ai posteri tutto ciò che i nostri progenitori con immane fatica e dolore ci hanno lasciato ci sembrava un buon motivo per rinfocolare la me- moria storica e lo spirito identitario di una comunità che, nel XXI secolo in piena ed anonima globalizzazione, sembra averlo del tutto smarrito. Ai giovani e sensibili ragazzi di ORUS, ed ai concittadini presenti all’evento, va il mio personale ringraziamento.
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Luca Cosma
Scrivere di storia dei secoli più lontani non implica, quasi sempre,attizzare polemiche. Se ad esempio chi scrive detesta Cesare o Carlo Magno non dà fastidio a nessuno per cui si accredita con anche le opinioni meno fondate.
Avvicinandoci con gli studi ai nostri giorni aumenta proporzionalmente il rischio di suscitare la vis polemica di chi si sente offeso per quanto si riporta per cui già affrontare gli eventi dell’Ottocento diventa un’impresa dimostrare che riferendo di un fatto si è super partes. Questi ostacoli finiscono per paralizzare la conoscenza degli avvenimenti più vicini a noi perché ci si divide e non poco. Per tal motivo molti o lasciano perdere la storia contemporanea o si allineano al politicamente corretto e al compiacimento dei vincitori, mai sposando, per prudenza o, piuttosto, paura, la causa dei vinti.
Con le stesse paure di far dispiacere a qualcuno riportando la verità storica, nelle scuole ci si sofferma più sulle capanne della preistoria che sugli eventi che hanno dato origine al nostro vivere sociale. Se poi andiamo alle guerre, la prima e la seconda guerra mondiale, molti tirano a lungo su avvenimenti più lontani evidentemente per chiudere in fretta e furia agli sgoccioli dell’anno scolastico, l’argomento.
Studiare la storia significa cercare di capire in maniera seria e credibile chi siamo. In quel che è il patrimonio contemporaneo di memorie è possibile fruire di molte fonti e ciò facilita l’avvicinarci se non all’obiettività almeno ad affermare qualcosa di equilibrato. L’abbondanza di documenti permette anche la critica.
Trattare la contemporaneità, però, sottopone al ricatto di chi per una qualsiasi ragione si sente offeso anche per i propri ascendenti. Talora ci si rammarica con lo storico perché “ha dimenticato” qualcosa o qualcuno che a suo giudizio non hanno avuto nulla a che fare con la narrazione dei fatti.
Al limite si giunge anche a delle querele, cose da pazzi.
Allora gli storici evitano di scrivere di fatti contemporanei per non subirne le conseguenze anche penali. E in effetti ne abbiamo avuto la prova in questi giorni alla presentazione di un libro sulle origini di un partito politico in Friuli. Per non scontentare nessuno l’autore è rimasto sulle generali, molto diluite, evitando di approfondire e poi, come fonti, è andato a cercare quanti gli avrebbero contestato anche le virgole se non citati. Cosa ne è uscito? Nulla di originale. Viceversa ci sono coloro che per uscire dalla costrizione cui sono sottoposti vanno a cercare la narrazione di uno scandalo, di un evento clamoroso che susciti interesse per indignazione, che guardi solo ad aspetti negativi.
Del resto che cosa possiamo attenderci se anche il passato viene manipolato non solo dai dittatori per giustificare il presente e le loro malefatte, ma anche nelle democrazie dove ora va di moda la cosiddetta “cancel culture” nei confronti di ciò che a quel che si pensa oggi non è “politicamente corretto”. L’opinione pubblica è portata a dare un giudizio secondo delle conoscenze o dei costumi che in passato nel momento dei fatti non esistevano. Certamente certi personaggi sono riprovevoli e non possono essere citati come esempio nè glorificati, ma hanno fatto la storia. Se andiamo a vedere quel che è realmente successo sono più le canaglie che le brave persone ad emergere dal passato. Sono pochi i buoni che fanno notizia,mentre i cattivi prevalgono, ma per questo non possiamo evitarli
nè cambiare quel che è stato secondo quel che ci piacerebbe fosse accaduto.
Lo stesso criterio di non intraprendere con una discriminazione morale il racconto della storia che abbiamo vissuto direttamente, grazie o purtroppo all’età anagrafica, dovrebbe portare ad una ricerca autonoma. La pluralità delle fonti e la vicinanza dei fatti giustamente va a produrre dei racconti diversi perché anche quando ci si avvicina alla v rità, cosa assai difficile se non impossibile, ciascuno di noi la vede dal suo punto di vista.
Scrivere di storia contemporanea, dunque, richiede equilibrio e coraggio, ma non per questo motivo ci si deve rinunciare oppure allineare alle opinioni di moda per non avere fastidi. Innanzitutto eliminando i preconcetti già si compie un passo in avanti nell’affrontare avvenimenti sui quali ovviamente abbiamo una opinione, ma non può essere questa a indirizzare l’interpretazione delle scelte fatte dalle persone.
Talora quel che ci pare assurdo o inspiegabile ha delle ragioni che possono risiedere nella profondità dell’animo umano e in tutto ciò che in esso si manifesta e certamente lì non corrispondono né documenti né testimonianze. Non sempre riusciamo a comprendere quali contingenze possono portare a compiere un atto. Ce ne sono di indicibili che non emergeranno mai e tantomeno se le persone sono viventi o se la loro vicenda è ancora foriera di conseguenze per l’attualità.
Eppure tenuto conto di tutto ciò bisogna studiare per capire, mettersi alle volte nei panni degli altri e di chi determina il fatto. La ricerca va allargata, specie oggi, ad una dimensione globale ove un evento anche accaduto a migliaia di chilometri di distanza può influenzare tanti altri eventi per cui diventa arduo risalire.
Chi ha delle responsabilità nella società, ma anche ciascuno di noi ha anche un dovere, quello di conservare se non la storia quel che è fonte storica. Le ricerche sono talora sterili perché si gettano via documenti, perché non si raccolgono gli elementi necessari non sono per un racconto personale, ma anche per permettere allo storico di oggi o di domani di accedere a tutto ciò che costituisce la fonte narrativa.
La storia contemporanea ha come “linea di indirizzo” la libertà di ricerca e di raccoto senza imposizioni esterne senza vincoli di comodo.
Poi, è evidente: coloro che “questo mondo chiameranno antico” faranno una storia sul passato e su quel che è rimasto. Facendo un esempio Eginaldo, uno dei tanti, ebbe a scrivere da contemporaneo su Carlo Magno, può essere una fonte più o credibile a causa del culto della personalità, ma non impedisce a noi di andare ad approfondire quel che concerne il sacro romano imperatore.
Così oggi non è tempo sprecato quello di andare a studiare e scrivere della storia contemporanea perché potrà benissimo convivere con quanto nel futuro si studierà e si scriverà sul nostro tempo.
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