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copertina numero 83 la bassa

la bassa/83

anno XLIII n. 83, dicembre 2021

Estratti di
articoli e saggi
della nostra rivista

In copertina:
Particolare della carta
Fori Iulii accurata descriptio
dal “Theatrum Orbis Terarum” di Abraham Ortelius (1527 - 1598)
Anversa 1573.

Stazione di Cervignano del Friuli, 29 ottobre 2021.
Centenario del Milite Ignoto: il carro funebre.)

Sommario


Milite ignoto

Gianfranco Ellero

L’Italia è il paese delle divisioni, delle contrapposizioni, del muro contro muro (gli esempi didattici sarebbero davvero numerosi e ricorrenti). Neanche la grande guerra era riuscita a unire tutti gli italiani, che alla vigilia dell’evento si divisero fra interventisti e neutralisti; nei due anni delle “spallate” sull’Isonzo fra combattenti e imboscati; dopo Caporetto fra oltranzisti e disfattisti. E dopo la vittoria, fra ex-combattenti che chiedevano il rispetto dello slogan “la terra ai contadini” e proprietari terrieri che non volevano perdere i loro privilegi! E ancora fra socialisti e cattolici.

Soltanto il viaggio del Milite Ignoto da Aquileia a Roma, fra il 29 ottobre e il 4 novembre 1921, su un treno speciale che viaggiò lentissimo fra due ali ininterrotte di folla, estinse per pochi giorni il fuoco delle fazioni e forse per la prima volta tutti misurarono davvero gli impronunciabili numeri di quella che Benedetto XV aveva definito “l’inutile strage”: più di seicentomila morti e un milione e mezzo di feriti.

Noi, nel centenario dell’avvenimento, riproponiamo alcune immagini fotografiche del viaggio da Aquileia a Sacile, fornite dalla Cineteca del Friuli di Gemona, e a commento il resoconto della cerimonia della “scelta” nella grande Basilica dei Patriarchi, celebrata il 28 ottobre.

IL MILITE IGNOTO

Dal 20 ottobre 1921 la chiesa di Sant’Ignazio a Gorizia fu la camera ardente per le salme degli undici militi senza nome raccolte sui campi di battaglia della grande guerra, trasportate poi nella basilica di Aquileia per la struggente cerimonia della “scelta”, che si svolse il 28 ottobre.

“Altissimo silenzio domina la folla – scrisse l’inviato speciale de “La Patria del Friuli” - e un brivido sentono tutti i cuori nell’attesa che la designazione sia fatta; e l’attesa di brevi istanti sembra non finisca mai. Il generale Paolini stende la mano ad una delle dolenti, la popolana Bergamas di Trieste: ella avanza, coperta da un lungo velo nero che quasi tutta l’ammanta e due decorati di medaglia d’oro la seguono nell’esecuzione del rito. La popolana è accompagnata al cippo romano dove è l’urna con l’acqua del Timavo.

Quivi il generale s’allontana, e la popolana s’inginocchia e piega il capo. Piange.

I singhiozzi suoi sono uditi.

La commozione vince tutti.

La madre sta per qualche tempo immobile dinnanzi al cippo e prega. Poi, lentamente, si alza, si accosta alla linea delle salme, s’inginocchia di nuovo dinnanzi alla seconda salma e prega.

Un brivido corre in tutti i cuori. Sarà quella la salma che la donna piangente designerà? La salma che nell’Altare della Patria, in Roma eterna, sarà l’eterno simbolo che dirà nei secoli la gloria di tutto il mezzo milione di morti?...

Proprio quella.

La Bergamas si alza e posa il proprio vello sulla seconda bara (…).

Le campane suonano a gloria, i cannoni tuonano a salve.”

Le altre dieci bare furono interratte fra i cipressi della grande basilica, mentre per quel milite sconosciuto iniziò il lento viaggio in treno che l’avrebbe condotto a Roma, dove fu collocato sull’altare della Patria nel terzo anniversario della vittoria, il 4 novembre 1921.

Il convoglio partito da Aquileia nella mattina del 29 ottobre, sostò in ogni stazione per ricevere l’omaggio di enti, associazioni e popolo. A Cervignano arrivò alle 8.20 e ripartì alle 8.35; a Palmanova rimase dalle 9 alle 9.15; a Udine sostò dalle 10.10 alle 11.10; a Pasian Schiavonesco (oggi Basiliano) dalle 11.31 alle 11.36; a Codroipo dalle 11.56 alle 12.01; a Casarsa dalle 12.30 alle 12.45, e così di seguito fino a Roma.

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Ricordato il viaggio del milite ignoto esattamente cent’anni dopo: 29 ottobre 1921 - 29 ottobre 2021

Enrico Fantin

Esattamente cent’anni dopo il viaggio del milite ignoto, è cominciato solo simbolicamente ad Aquileia, perché oggi la linea ferroviaria non c’è più.

Il treno vero e proprio, con le carrozze d’epoca, la locomotiva a vapore del 1921 e il vagone che trasportava l’affusto di cannone con la bandiera tricolore originale, è partita alle ore 11,30 dalla stazione di Cervignano del Friuli, con destinazione Gorizia e Udine, prime due tappe della lunga traversata del Paese, e con l’arrivo previsto per il 2 novembre a Roma.

Teatro della cerimonia solenne, che ha visto la partecipazione delle autorità civili, militari e religiose, nonché la numerosa presenza dei Sindaci della regione, delle associazioni combattentistiche, si è tenuta nel piazzale della basilica di Aquileia.

Il sindaco della cittadina Emanuele Zorino ha portato il saluto della comunità. Ha proseguito il presidente della Regione Massimiliano Fedriga sottolineando un parallelismo fra le due epoche. Ha chiuso i discorsi ufficiali il ministro della Difesa Guerrini rimarcando come “il viaggio del milite ignoto sia stato un momento fondamentale della storia italiana, un viaggio di unificazione del Paese, dopo la tragedia della Prima guerra mondiale”.

Alla fine il Ministro con le autorità hanno inaugurato il restaurato cimitero degli “Eroi”, dove sono sepolti Maria Bergamas e i 10 soldati sconosciuti che furono scelti per il milite ignoto, deponendo una corona d’alloro alle loro tombe, mentre nel cielo di Aquileia le Frecce tricolori dispiegavano per due volte il verde, bianco e rosso dell’Italia.

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Nessuno e’ piu’ sordo di chi non vuol sentire

Roberto Tirelli

Negli ultimi due anni, o forse anche più, ad ogni mio intervento in qualità di presidente de “la bassa”, ho sottolineato con forza l’iniquo trattamento che la nostra Associazione sta subendo da quelle che sono le principali istituzioni erogatrici di pubblici contributi in Friuli.

A forza di battere sempre su quel chiodo prima o poi mi sarei atteso una reazione, una risposta, sia dai cosiddetti “politici” sia dai presenti direttamente invitati ad aiutarci tramite l’iscrizione con il versamento della quota sociale. Mi sono illuso anche sulla solidarietà concreta dei “professionisti della cultura” cui non mancano certo lauti contributi.

Mi sono trovato di fronte sempre un indifferente muro di silenzio. Ho pensato a tantissime ragioni plausibili, ma solo una mi ha illuminato: noi ricercatori della “bassa” stiamo maneggiando una materia esplosiva: la storia.

Oggi nessuno ne vuol sapere quando viene affrontata in modo serio perché aiuta a conoscere i fenomeni umani più di ogni altra scienza o materia. Fanno fortuna solo i superficialoni che la raccontano a mò di chiacchera, sfruttando l’attrattiva televisiva e il fatto che sul piccolo schermo quel che si dice presto si dimentica.

Nei tanti anni in cui “la bassa” ha lavorato sul territorio per rendere ogni comunità consapevole del proprio passato non si è riusciti a smuovere almeno i più sensibili a dare rilievo al patrimonio di memorie e cose che possiedono.

Le amministrazioni comunali negli anni dell’abbondanza, tranne qualche felice eccezione, non si sono preoccupate di creare una continuità rispetto alle ricerche da noi effettuate e tanto meno lo fanno ora con le vacche magre delle pubbliche finanze, pur avendo assegnata ogni anno dalla Regione una specifica quota di bilancio.

Se a tutto ciò aggiungiamo la crisi generale dell’associazionismo originata dalle restrizioni e dalla stanchezza spesso di lottare soli e controvento.

Molti sono convinti che leggere o ascoltare la storia è un grande ed importante esercizio di libertà. E lo siamo anche noi, ma rileggere il passato riporta a galla quel che s’é affossato con l’oblio diffuso sui fatti lontani come su quello vicini, sui pochi grandi personaggi espressi dal Basso Friuli come sulle gente comune.

Da ciò il taglio della storia fra le materie scolastiche, lo stupido revisionismo, l’ignoranza generalizzata che produce distruzioni di memorie preziosissime.

Da ciò ho capito perché per alcuni che hanno in mano la borsa dei soldi una associazione come la “bassa” deve morire. Ci potrebbero essere altri a proseguire il cammino da noi intrapreso e quindi ad interrompere il disegno criminale di cancellare tutta la memoria.

Forse questa è solo una mia sensazione, ma se non fosse vera, cari lettori, smentitemi dandoci una mano, chiedendo a chi conoscete ad esempio nei Comuni che si iscrivano, chiedete ai pochi privati che si dicono generosi, ma soprattutto fate pressione su coloro che decidono circa i contributi che modifichino le leggi o ne adottino alcune nuove.

Per portare avanti la nostra associazione non serve una fetta della torta dei finanziamenti pubblici. Ci basta qualche briciola e soprattutto amore per la storia del proprio paese e di questa terra meravigliosa che è il Friuli di qua e di là “da l’aga”.

Anno dopo anno ci stiamo accorgendo della crescente disattenzione dei pubblici poteri per la cultura ed in particolare per la cultura storica. E’una reazione spontanea dei nostri “politicanti” per i quali chiunque faccia tesoro dell’esperienza del passato sia un nemico potenziale del presente. O talebani ed i loro emuli che distruggono le tracce delle culture precedenti non sono molto distanti da coloro che vogliono una cultura spettacolare e demagogica, capace di condurre consensi e non valori, l’effimero e non contenuti duraturi. E poi più c’è ignoranza e più c’è libero spazio ai venditori di fumo.

In questo contesto “la bassa” sta esaurendo le sue forze, perché la serietà, l’impegno, il volontariato non hanno cittadinanza in una realtà dove gli enti pubblici (Comuni e Regione) sono sordi e mettono mille ostacoli al loro aiuto, dove non c’è mecenatismo privato, dove anche le banche, un tempo generose mettono a gara i contributi: più likes hai on line più ti finanzio.

Non occorre dire di più per capire che questi meccanismi sono la morte per una associazione come “la bassa”.

Per deviare il discorso qualcuno fa delle osservazioni temerarie ad esempio sulla nostra età: siete vecchi, non interessate i giovani. Sarebbe il nostro più vivo desiderio passare ai giovani il compito di continuare il cammino che abbiamo intrapreso, ma nonostante i nostri appelli nessuno si è fatto vicino per portare verso il futuro il nostro patrimonio morale ed intellettuale.

Ci rendiamo conto che, soprattutto dopo lo scoppio della pandemia, la vita associativa, non solo nostra, è entrata in crisi, ma se non siamo in grado di reagire ne resterà ferita gravemente anche la vita sociale.

Personalmente sono ormai stanco di lanciare appelli per avere un sostegno alle nostre ricerche. Sono stanco di lavorare settimane per predisporre domande che vengono scartate perché non hanno un sufficiente punteggio. Sono stanco di stendere la mano per chiedere invano la carità.

Tutto ciò non è dignitoso ed è offensivo per la qualità del lavoro che offriamo.

Ormai lo so che anche queste parole cadranno nel vuoto.

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1477 - Li Turchi corsero il Friuli

Gianni Strasiotto

Il Friuli, passato alla Repubblica di Venezia nel 1420, tra il 1470 e il 1499 subì almeno sette incursioni di Turchi ottomani. Il termine ottomano deriva dal turco osmanlï “appartenente a Osman”, dal nome di Osman I Ghazi, fondatore della dinastia ottomana e dello Stato. L’Impero turco musulmano ebbe inizio nell’Anatolia, attorno al 1300, e si sviluppò dopo la presa di Costantinopoli del 1453, provocando la caduta dell’Impero Romano d’Oriente. L’abolizione formale del sultanato ottomano è del 1922.

Nella sua espansione - prima della fine del 1400 - sottomise il Peloponneso (1458), la Serbia (1459), occupò l’isola di Lesbo (1462), la Bosnia (1463), l’Erzegovina (1466), l’Albania (1478) e - nel secolo seguente - la Moldavia (1504), arrivando così a minacciare da vicino la terraferma veneziana.

La difesa della Patria del Friuli era affidata ad alcune compagnie di militi e alle cernidi o ordinanze, vale a dire le milizie paesane fornite dai villaggi, poco addestrate, male armate e per nulla motivate. Inoltre, le opere di difesa erano antiche e sguarnite e i difensori del tutto impreparati a fronteggiare le veloci, temutissime bande. La Repubblica di Venezia, pertanto, non era in grado di proteggere i propri territori, così gli incursori riuscirono a dilagare senza trovare una valida resistenza.

Il Senato veneto, dopo le distruttive e cruente incursioni del 1469 nel territorio di Lubiana, arrivate a sole 40 miglia da Trieste, fa dislocare alcune truppe mercenarie, dette stipendiarie, lungo l’Isonzo e dispone di aumentare le compagnie degli stradiotti o capelletti (1) in funzione antiturca.

Le varie scorrerie erano condotte in prevalenza da bosniaci islamizzati, sotto la guida di comandanti turchi, con l’aggiunta di volontari assetati di bottino e con la presenza di croati, serbi e ungheresi, in prevalenza di fede musulmana.

La prima scorreria nel Friuli avvenne nel settembre 1470 con diecimila uomini a cavallo.

Durante la seconda, nel settembre 1472, i Turchi, guidati dal pascià della Bosnia Iskanderbeg Michaloghli (cristiano rinnegato di origini genovesi), arrivarono fino nei pressi di Monfalcone e alle porte di Udine, unica città inespugnabile nella Sinistra Tagliamento, lasciando sul terreno diecimila vittime e portando in schiavitù duemila giovani prigionieri, di ambo i sessi.

Il Libro degli anniversari del molto reverendo Capitolo di Concordia ricorda che, il 22 settembre 1472, “i Turchi infedeli invasero la Patria del Friuli e razziarono, portando via persone catturate e beni di più di sessanta paesi tra Udine e Monfalcone, con grandissimi incendi delle case”.

Nell’anno successivo, il governo fece erigere i forti di for- tezze a Mainizza, Gradisca e Fogliano, a presidio della linea dell’Isonzo, e fece costruire un argine, dai monti al mare, al di qua del fiume. In tutto il Friuli ci fu un proliferare di rudimentali cinte fortificate a difesa dei villaggi, per il rifugio delle persone e di qualche animale, per lo più attorno alle chiese, con i campanili adibiti anche a torri di avvistamento.

Tanta era la paura per la spaventosa ferocia manifestata dai Turchi. Ogni volta, questi predoni entravano nei territori terrorizzando le popolazioni, provocando saccheggi, incendi, stupri, atti di brutalità e facendo prigioniera la gioventù.

Resi temerari dalle tante vittorie riportate, specie nei Balcani, si ritenevano invincibili.

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Ernest Hemingway a Fraforeano

Gianfranco Ellero

Il 23 agosto scorso su “Messaggero Veneto” pubblicai un articolo per rievocare la visita di Hemingway a Udine il 10 aprile 1954 e per sollecitare il Comune a intitolare con il suo nome un luogo pubblico, per la precisione quello che era il giardinetto antistante l’ex Albergo Friuli, oggi lastricato e inglobato nella Corte Savorgnan.

Il grande scrittore americano, Premio Nobel, convalescente a Venezia dopo essere scampato miracolosamente a un incidente aereo in Africa, aveva accettato l’invito di Carlo Kechler per un soggiorno a Percoto, ma aveva acconsentito a una sosta con cena a Udine.

La lettura dell’articolo ha risvegliato, nella precisa memoria di Angelo Macor da Froforeano, che oggi vive a Codroipo, il ricordo di una sosta dello scrittore americano a Case Nuove.

Hemingway, com’è noto, amava la caccia e la pesca, e fu invitato dai Kechler, a una battuta nell’immensità di Fraforeano: tremila campi friulani, delimitati da acque, coperti dal divieto di caccia e sorvegliati da due guardiani, e quindi ricchi di selvaggina.

La battuta si concluse, o ebbe una pausa, a Case Nuove, in casa dei Macor, come ricorda Angelo, allora undicenne.

Hemingway, accompagnato da Sior Titi (Alberto Kechler) e dal guardiacaccia Massimo Pistrin, volle bere dell’acqua, e la madre di Angelo, da una pompa che pescava in una vena di risorgiva, riempì un boccale di terracotta smaltata, di uso quotidiano nella sua famiglia, e perciò sbeccato sull’orlo.

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Un inventario di bottega nella Latisana del 1576

Benvenuto Castellarin

Presentiamo questo inventario, depositato presso l’Archivio di Stato di Udine (Miscellanea di documenti riguardanti la giurisdizione ed il Comune di Latisana, b.1,f.2) quale esempio di che cosa si poteva trovare allora di una bottega latisanese che possiamo definirla, con un termine moderno: un quasi supermercato con la differenza che non ci si serviva da soli.

Botteghe similari, naturalmente con prodotti e oggetti del nostro tempo, hanno resistito nei nostri paesi fino agli anni sessanta del Novecento, poi hanno dovuto cedere il passo alle forme più moderne della vendita al minuto ma che si possono ancora trovare in qualche sperduto paesino di montagna.

L’inventario è stato presentato presso la cancelleria di Latisana il 3 luglio 1576, non è citata la motivazione, pensiamo sia avvenuta per la morte del proprietario o per una compra-vendita.

Vengono inventariati tessuti, come seta, tre qualità di tela nostrana, costanza, e Gro gran, aghi per il cucito, bottoni, aghi e filo da cucire, aghi da done, cordicelle, frange, ecc. Ci sono accessori di abbigliamento come cinture, cinturini, guanti di lana, un berretto, cappelli di paglia e sciavoni, specchi.

Non mancano le spezie come la cannella, lo zafferano, il pepe, la noce moscata. Non potevano mancare i generi alimentari come formaggio, riso, sardele e sardoni, o frutti come i naranzeti, ortaggi come i verzi; tre qualità di zucchero, in polvere, fin e candìo.

Presente pure l’olio e l’aceto e la sonza ossia un grasso multi uso. Ci sono alcuni minerali come l’argento il piombo e il retrigerio, allume di rocca, il minio, la onnipresente teriaca, ecc.

C’è pure la colla caravella, ci sono le candele di zera, il pavero, la manna. Non mancano coltelli, boccali, ingiostere, bicchieri, scatole e bossoleti, ecc.

C’è pure il sapone e una serie di attrezzi per il lavoro in modo particolare del contadino come denti di grapa, falze vecie, corde, fil di rame, ecc. Ci sono anche libri donadi e ben 21 paia di carte da zogar, ami per la pesca e, infine, un banco de botega.

Le unità di misura presenti sono le braza (br.) ossia il braccio per la misure lineari, la libbra (lib.) e l’oncia (on.) per le misure di peso.

L’inventario è corredato da un elenco di 185 debitori che vanno da prima il 1566 fino al 1585, di questi abbiamo scelto di citare in modo particolare coloro che esercitavano dei mestieri, come ad esempio quel Daniel zataro di Risiuta, che avrà condotto una zattera di legname fino al porto di Latisana, e avrà acquistato qualcosa a credito, forse anche Fiorin de Venzon, oppure Gerolimo de Rasi de Pescara, anche lui arrivato al porto e fatto più volte acquisti, così come Anzolo da Buran, Onar detto Antonio Spino de Barleta; Andrea de Codegoro sarà arrivato al porto di Latisana scendendo per un ramo del Po. C’è poi quel Pol de Medies (di Mediis), frazione di Socchieve (UD), località da cui provenivano allora valenti tessitori di lino e canapa: tessitore sarà stato anche Colau de Colza, frazione di Enemonzo in Carnia. Ci sono gli osti, i gastaldi, c’è il carrettier, il bottaio, il mugnaio, il cordaio, il macellaio, il calzolaio, ci sono i preti: quel Clarissimo dottor Frate Bernardo prio.. (prior?), sarà stato (ipotesi) un prelato di Venezia priore del convento di Latisana; la pieve stessa di San Giovanni Battista aveva debiti con questa bottega. Da ultimo va ricordato quel Zuanlunardo fu singaro, il quale, debitore sì ma che si era riscattato dalla condizione poco rispettabile di zingaro.

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Gente da Cortile

Roberto Tirelli

La strutturazione del paesaggio rurale nella media e bassa pianura friulana sino a pochi anni fa vedeva prevalere il modello dell’abitare in corte o cortile (curtil), tradizionalmente legato ad una economia agricola ed alla famiglia patriarcale. L’evoluzione socio economica avviata dagli anni Sessanta del Novecento e l’affermarsi della famiglia nucleare hanno portato a preferire il modello dell’abitazione singola ed isolata con un processo di abbandono dei centri per un allargamento delle periferie.

Nell’abitare si riconoscono sempre dei valori sottostanti che influenzano le scelte e la mentalità dei singoli e della società, in questo caso paesana. L’abbandono del cortile ha significato, quindi, un cambio storico di prospettive e di abitudini che non poco ha contribuito ad indebolire quello spirito comunitario che caratterizza- va la realtà friulana.

L’organizzazione a corte ha origini lontane legate alla formazione stessa dei paesi che in gran parte risale al basso Medioevo. Solitamente la struttura insediativi si irradia da un centro munito con la chiesa, progressivamente allargandosi in più direzioni e formando quelli che vengono definiti borghi (borc) cioè agglomerazioni di case e di edifici per le attività agricole distinti fra loro o per ragioni di proprietà, o etniche, o funzionali (ad esempio la presenza di un pozzo o del suei). Un modello alternativo di insediamento abitativo è quello lungo una via con dei vicoli o direttamente dei cortili collocati a “pettine”.

Nel Medio e Basso Friuli la formazione dei centri abitati ha richiesto parecchio tempo con frequenti interruzioni dovute agli eventi storici negativi ed alle permanenti difficoltà economiche della popolazione. Sia in un caso che nell’altro da una prima “casa”, abitazione precaria o stabile, se ne sviluppano di altre in rapporto alla crescita della popolazione o alle esigenze delle attività agricole. Ovviamente le prime organizzazioni dell’abitare non avevano il requisito della stabilità per le vicende storiche e per la precarietà dei materiali di costruzione. La strutturazione attuale delle corti rurali nel medio e basso Friuli ha inizio nella seconda metà del XVI secolo con il consolidarsi del dominio della Serenissima che ha garantito una lunga pace. Ciò coincide anche con una ripresa demografica, nonostante le frequenti epidemie, e con la stabilizzazione dell’istituto familiare dopo il Concilio di Trento.

Cambia anche lo stato delle costruzioni da precarie in edifici più stabili e con materiali durevoli, il che favorisce il permanere per più generazioni nello stesso luogo (locum poi friulano loc che sta per casa, abitazione). Nei secoli successivi il sistema cortile ha continuato ad evolversi sia per necessità familiari sia per le attività delle famiglie stesse ed un ulteriore fattore di stabilità è venuto dalla acquisizione della proprietà, indubbio sprone a migliorare e a conservare.

Più che uno spazio fisico il cortile è uno spazio umano formato a misura delle persone più che dell’architettura rurale. E’ dato dalla convivenza porta a porta che forma una comunità di famiglie conflittuale e solidale allo stesso tempo, ma che,all’interno della più vasta comunità paesana assume una sua propria identità. Così ogni cortile ha una sua denominazione riferita alla famiglia più consistente che lo abita, ma non sempre, perchè la fantasia del mondo rurale non ha limiti.

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CASARSA tra eroi della Fede ed eroi della Patria fascista (decennio ‘30-’40)

Carmela De Caro
Casarsa Missionaria

Molte le persone che, cittadini o meno di Casarsa, si sono chieste i motivi dell’ordinazione di tanti sacerdoti e suore del paese già dalla metà dell’800 e nel 900, in particolare, tra gli anni ’50 e ‘65; la comunità di Casarsa, a metà del ventesi- mo secolo, infatti, contava una popolazione di appena tremila unità. La domanda, i vaticanisti, la posero certamente anche a Monsignor Giovanni Maria Stefanini, cooperatore fino all’anno 1919 dell’allora arciprete di Casarsa don Giacomo Co - lussi e poi parroco fino al 1962, epoca della sua morte a ottantacinque anni d’età e sessantadue di sacerdozio tutto trascorso a Casarsa. Il Monsignore rispose semplicemente “em>Io faccio il Parroco”. Nelle testimonianze di preti e suore depositate su quell’affermazione, si ripete un’asserzione: Stefanini era uomo di preghiera. Egli passava in chiesa, in ogni stagione e con qualsiasi tempo, due ore al mattino e due di sera, considerava la preghiera l’anima e forza della sua missione, pregava per la sua gente.

Di contro, ci sono poi altre affermazioni di sacerdoti che ascrivono alla famiglia la priorità in fatto di vocazioni. In quegli anni, infatti, la preghiera era di casa presso i nuclei familiari e questa favoriva l’inclinazione religiosa. A conferma di quanto diciamo su Stefanini e sulla famiglia, riportiamo da “Il stroligut” dell’agosto 1945 la poesia “Recuars” che l’allora diciottenne Ovidio Colussi scrisse sotto la guida di P.P. Pasolini in occasione del cinquecentenario della chiesa di S. Croce. Là/ nel coro gelido/il pievano/ prega in piedi. A rovesci dal cielo/cade la piog- gia/. Come adesso anni fa/mio bel paese/ i tuoi/ preti pregavano/ nella chiesetta tiepida. / attorno al focolare/ le famiglie unite. / Un lontano belare di pecore. / E contenta placida scende la notte.

“Ulà/ tal coru inglasat/ il plevan/ in piè al prea. / A zlavason dal seil/ a cola la ploja. /Come ades anons fa/ me biel pais/ i tos/ predis a preavin/ ta la glisiuta/ clipi- da. /Ator dal fogolar/ li fameis/ tacadis. /Un lontan zbegheà/ di fedis/ E contenta/ calma/ a cala/ la not”.

Ma a ben guardare, forse il fenomeno di “Preti e Suore a grappoli nelle fami- glie di Casarsa” come dal titolo di un’intervista al salesiano don Paolo Valentinuzzi del 1967, direttore del settimanale diocesano “Il Popolo”, è da ricercare anche in altre cause. La realtà economica delle famiglie di Casarsa era di tipo agricolo, il lavoro duro e poco remunerativo, le famiglie numerose e per lo più imparentate fra loro. Questo non facilitava i genitori a mandare a scuola i figli che, presa la licenza elementare, erano avviati al lavoro dei campi. Non vi erano, poi, scuole pubbliche se non collocate a Udine o a Pordenone; licei e ginnasi dipendevano dalla chiesa; il più vicino era a Portogruaro nell’ex seminario e a Pordenone solo a partire dal 1920. Si aprì, allora, una strada diversa: gli istituti religiosi e in particolare lo “studentato salesiano Card. Cagliero” di Ivrea dove si poteva studiare e coltivare la vocazione religiosa che molti ragazzi manifestavano. Fu così che, grazie all’interessamento del parroco Stefanini e del salesiano don Paolo Valentinuzzi, nei periodi che trascorreva a Casarsa, molti ragazzi venivano mandati a Ivrea a studiare lontani dalla miseria. (Interessante l’intervista concessa da Paolo Valentinuzzi al pubblicista D. A. Giacinto,” D’Angiak” nel1967 e le “Lettere mortuarie dei primi sei defunti salesiani casarsesi” conservate nell’archivio della parrocchia). Don Paolo dice che “il fiorire delle vocazioni a Casarsa, si spiega con il fiorire della pietà eucaristica, con la formazione cristiana dei genitori e particolarmente delle mamme, con l’Azione cattolica, con l’esempio e lo zelo dei parroci…”. A don Paolo dobbiamo l’esistenza di scritti e le fotografie di quasi tutti i sacerdoti e missionari casarsesi di cui si conserva memoria. È lui a raccontare qualche episodio del salesiano Francesco Colussi (nato il 6/8/1880 e morto missionario in Brasile il 10/7/1904): un giorno andò a Ivrea presso lo studentato ma il direttore gli ordinò di tornare a Casarsa non avendo egli con sé la documentazione necessaria per essere iscritto. Francesco aveva soldi solo per arrivare solo sino a Verona dove, una volta giunto, non avendo più mezzi e soffren do la fame, pensò di chiedere aiuto a carabinieri del posto. La storia ebbe un buon fine: Francesco riuscì a studiare a Ivrea e poi partì missionario in Brasile. E le vicende di don Ferruccio Colussi (nato il 2/7/1908 e morto il 24/5/1940, missionario nell’Assam, India): giunse in India nel ’26. Profondo conoscitore della lingua hindi e di quella assemese, scrisse molti libri di preghiere e canti locali. Svolse il ministero a Krishanagar, nel Bengala centrale, di cui fu parroco e direttore del don Bosco School. Animo sereno, seppe accattivarsi l’affetto dei non credenti. Morì a soli 32 anni, pare per aver offerto l’anima a Dio per la salvezza di un’anima impenitente.

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Latisana porta del Friuli

Serena Vidal

Ogni luogo è per intrinseca definizione circoscritto da confini, siano essi naturali o artefatti. Ai luoghi si appartiene, contribuiscono a definire l’identità dei residenti, trasmettono implicitamente la loro storia nei secoli, che si rispecchia nell’assetto cognitivo dei loro abitanti, nel modo di percepire sé stessi, la propria comunità e gli esterni alla stessa.

Tuttavia ogni luogo è raggiungibile attraverso degli accessi, le “porte”, dove i confini tra due ambienti contigui si allentano, schiudendosi al transito. Tale peculiarità le rendono desiderabili, gli spazi ad esse prospicienti ne rivendicano il possesso, ma una porta non appartiene mai intimamente ad un territorio: la prospettiva di osservazione può ingannare e indurre ad attribuire affiliazioni contrastanti, trascurando l’essenza autentica della soglia, ovvero l’apertura e il transito che la delineano come un luogo a sé, con un’identità a sé stante.

Indicativa di un’identità peculiare è la città di Latisana, che i veneziani nel 1411 definirono una delle porte per entrare nel Friuli. Ai giorni nostri appare un centro sonnacchioso, adagiato sulla riva friulana del fiume Tagliamento che ne ha ricoperto le vestigia storiche sotto diversi metri di depositi terrigeni alluvionali, ma non ha sepolto la memoria culturale implicita dei suoi abitanti. Nei territori circostanti il latisanese è considerato spocchioso, e un senso di superiorità effettivamente si coglie nell’atteggiamento dello stesso rispetto ai non residenti del “centro storico”, alla stregua di un distinguo identitario che si riflette anche nel linguaggio quotidiano.

Il latisanese cittadino parla un dialetto veneto inquinato nella cadenza e nei termini dalla lingua friulana, di contro in periferia e nelle località limitrofe un tempo comprese nella Terra della Tisana, soprattutto quelle che dalla città giungono al mare lambite dal Tagliamento, si parla un friulano che nella struttura linguistica risente ampiamente della trascorsa dominazione veneziana. Ma per comprendere appieno l’essenza di questa città e della sua terra, nel tempo protagoniste di mutazioni confinarie e di continue alienazioni e ripartizioni da parte dei diversi feudatari, bisogna ricostruirne la storia.

Solo una disamina delle origini può restituire a questo luogo un significato identitario, che si estrinseca implicitamente e perlopiù inconsapevolmente nella quotidianità dei suoi abitanti, evidenza di un’appartenenza ad un sottosistema consolidato nel tempo.

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...e quindi uscimmo a riveder lo Stella
Dante a Palazzolo

Giuliano Bini

E’ trascorso più di mezzo secolo da quando i giovani de “La Sveglia” di Palazzolo dello Stella si “divertivano?” scrivendo il loro giornale, per poi stamparlo girando infinite volte la manovella del ciclostile. Era un lavoraccio intanti sensi, ma riusciva a tener svegli loro e forse anche il paese.

Una delle rubriche più seguite dal pubblico aveva per titolo “Scoreadis”, che trattava in modo a volte caustico, ma più spesso satirico, burlesco o caricaturale, certe espressioni di vita, le debolezze umane dei paesani. Come da tradizione si usavano spesso i versi, la rima e la lingua friulana, ma si giunse persino alla parodia della Divina Commedia.

Nel settecentesimo anniversario della morte di Dante Alighieri, in un momento in cui in ogni dove fioriscono prestigiose iniziative in memoria del Sommo Poeta, con splendide gare di scienza, cultura e poesia, vorrei far partecipare anche Palazzolo, che ha avuto il merito, cinquantacinque anni fa, di coinvolgere Dante Alighieri, con lo pseudonimo Cucubìn, nelle cose di paese.

Sono certo così di assicurare al mio paese l’ultimo posto, un salutare bagno di umiltà, dopo l’esaltazione nel libro “Super Palazzolo”, togliendo inoltre a tutti l’imbarazzo di una simile posizione.

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La Bandiera del Friuli dalle celebrazioni per i 944 anni della Patria del Friuli. 12 settembre 2021

Maria Rosaria Romano

Fuori, sul piazzale del Duomo, c’è la banda “Società Filarmonica di Pozzuolo del Friuli”, di- rettore il maestro Paolo Frizzarin. La musica ter- mina con il suono delle campane che segnala- no l’inizio della Messa. Sulla scalinata sono in attesa tre vigili con il gonfalone del Comune di Udine. Dentro, nelle prime file, stanno pren - dendo posto i sindaci dei Comuni Friulani e i tricolori delle loro fasce prendono luce nella penombra. La Messa è in lingua friulana, la prima lettura è in tedesco, la seconda in sloveno. Celebra don Luciano Nobile, arciprete della Cattedrale di Udine, partecipano alla cerimonia don Italo Gerometta e don Moris Tonso delle Cattedrali delle Diocesi di Concordia-Porde- none e Gorizia.

Nell’omelia don Nobile ricorda il libro pubblicato da “la bassa” (2020): Segni della Cristianità in Friuli- Le chiese lungo il Tagliamento, a cura di Enrico Fantin e Roberto Tirelli. Ricorda che a pag.III c’è la dedica: “In memoria di don Giuseppe Marchetti grande protagonista della cultura friulana e alle Genti Friulane che hanno saputo affrontare con coraggio e sacrificio il dramma del terremoto”.

Ricorda che a pag. XV c’è la poesia di Padre Davide Mario Turoldo

“Il mio fiume”:
Fiume del mio Friuli, povero fiume, vasto di ghiaia dove appena qualche incavo d’acque accoglieva, nell’estate, i nostri bianchi corpi di fanciulli simile ad un selvaggio battistero!....

L’immagine del Friuli che viene richiamata ai nostri occhi, dal Tagliamento all’I- sonzo, dalle Alpi Carniche al mare delle spiagge friulane, è splendida per la Storia in un cammino di civiltà che conserva i suoi valori di Fede, oggi come ieri, e che ha saputo ricostruire e restaurare anche le chiese più piccole e nascoste che il terremo- to del ’76 aveva distrutto. La Messa termina e si può andare a visitare il Museo del Duomo, per ritrovare la storia del Beato Bertrando.

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Il sium dal cesen di Prissinins

Stefano Lombardi

In place
lunc il flum
mi senti e
buti botons di pan,
tachin a mangjâ.
Il cign plui grant
al conte a che atris: Fruts, cuant ca l’ere il Virus
Il flum someave un bleon
e jo, di bessôl lu ai tajât
dal puint da la ferovie
al Rivabella.
Un sium: il cesen paron dal Stele!
I eri cuet
rivât in somp,
no l’ere nissun
mi an batùt lis mans
sol lis cjampanis
di San Martin, ca an jodùt.
Stevin dûc in scoltev finche al a concludût cussî:v Pareve dut a pendulon,v lis zornadis si niçulavin
simpri pi lentis
finche si è fermât dut.
Dopo tantis zornadis
a distirâ e a pleâ
il bleon di bessôl,
rivât al cantîr navâl
o ai preât la Madone da la Salût
ca fedi tornà il casin di prime.
Oms, barcis, muturins,
frutins a sidiami,
int intal bar,
il vuacâ dai cjans ca mi fan cuintri,
il vivi da la place.
Grasie a Jê
planc planc al’è tornât
dut come ca l’ere, ma no come prime
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La mappa sociale di Fraforeano nel 1950

Gianfranco Ellero

Fraforeano era un paese diverso dagli altri non solo per il suo aspetto paesaggistico, essenziale e con tratti di nobiltà, ma anche per l’assetto giuridico (feudo di secolare durata, fondo chiuso secondo le leggi napoleoniche, infine tenimento chiaramente delimitato da acque) che determinava una caratteristica mappa sociale: la proponiamo fermando il tempo alla metà del secolo XX, quando gli abitanti erano 631, picco dal quale iniziò l’inarrestabile discesa.

Per apprezzare la diversità di Fraforeano, possiamo considerare i rapporti giuridici che legavano la popolazione alla terra.

Se guardiamo, per confronto, il vicino paese di Canussio, possiamo osservare una frazionata proprietà della terra coltivabile, divisa in campi direttamente lavorati dai proprietari, oppure da mezzadri (i Marin, ad esempio, lavoravano la “Code”, i Faggiani il “Pradisot”, appezzamenti di proprietà Arundello) o da affittuali, che talvolta erano proprietari di qualche ciamput. A Canussio molti lavoratori agricoli, fatta eccezione per i mezzadri, erano dunque legati alla terra da un rapporto di proprietà, non da un contratto di lavoro. Ma il regime giuridico, che determinava l’assetto sociale di Canussio, era tipico di altri paesi dei dintorni.

La terra di Fraforeano, invece, alla metà del XX secolo apparteneva a due pro- prietari imparentati, che potevano coltivare tremila campi soltanto per effetto di contratti di lavoro stipulati con un centinaio di famiglie.

La logica conseguenza di questo regime giuridico era la mobilità della popolazione per una causa ignota nei dintorni: una famiglia poteva rimanere a Fraforeano, abitando una casa non sua, finché il capo o altri familiari lavoravano per una delle due aziende agricole. Nel giro di una generazione, quindi, c’era qualche famiglia che lasciava il paese e qualche altra che vi entrava. Ma a partire dagli anni Cinquanta i vuoti creati dai partenti, individui o famiglie, non venivano colmati da immigrati: le aziende si stavano meccanizzando e la mano d’opera era sovrabbondante.

Fraforeano da sud

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Marano Lagunare nel cenotafio dell’imperatore Massimiliano I

Roberto Tirelli

Fra i 24 rilievi marmorei che ornano il cenotafio dell’imperatore Massimiliano I (1459-1519) vi è uno particolarmente significativo dedicato alla difesa degli imperiali della fortezza di Marano, conquistata nel 1513 con l’inganno da Cristoforo Frangipane. Vi viene rappresentata la battaglia di terra e laguna guidata da parte veneziana da parte di Baldassarre Scipione (+1515) e Giampaolo Manfrone ( 1441-1527) via terra e da Bartolomeo Da Mosto via mare: “marchiò à quella volta Baldas- sare Scipione Gouernatore di ottocento Caualli e di cinquecento Fanti... Il Conte Sauorgnano andò con quattro mille Soldati delle Cernide” - racconta il Palladio degli Olivi ne le Historie de la Provincia del Friuli - aggiungendo che i comandanti veneziani chiesero prima di attaccare battaglia la resa del, fortezza, ma in cambio il loro araldo ricevette solo ingiurie “Onde i Veneti impatienti d’aspettare il soccorso di alcune galée vollero dare la scalata alle mura. I Tedeschi che erano di guarnigione scoperto il pensiero dell’ inimico si diè a bersagliarlo col cannone che sbarattò le ordinanze diuise con morte di molti”. Non meglio va quando arrivano le navi attese: “Erano le mura verso il Porto più inferiori dell’altre in buona parte diroccate onde per di là sperauano ritrouare l’ascesa più facile. Fù principiato l’assalto nella parte dalle genti dello Scipione e del Sauorgnano e su il Mare dall’altra”. Scoppia però un temporale che mette in difficoltà gli assalitori da terra permettendo agli imperiali di andare “alla difesa dell’altra parte della Piazza al Mare oue approdavan le galee e altri legni. Cominciaua quella à salire le mura, ma all’arriuo del rinforzo fù questa reietta”. Nel frattempo arrivano per gli imperiali i rinforzi del Frangipane da Gradisca e “i Veneti che non sospettauano tal deliberatione i quali riempiti di terrore si posero in fuga nè ciascheduno ad altro pensaua che à sottrar se stesso da quel pericolo. Ma inseguiti dai Cesarei fino alla ripa molti furono messi à fil di spada con la perdita degli alloggiamenti e di alquanti pezzi di cannone. Una delle Galee che tardo ad allontanarsi da Terra venne anche in potere de nemici”. In realtà l’attacco da terra non ha però luogo per vari motivi: le lance (lancieri mercenari) non vogliono unirsi con le cernite (volontari) per il ritardo delle paghe; gli uomini imbarcati sulle galee non possono avvicinarsi alle mura a causa dell’alta marea; solo le truppe trasportate dalle barche entrano in paese e sono facilmente respinte. Infi- ne tali imbarcazioni con i loro armati si ritirano senza il permesso del provveditore nella più grande confusione. Nel marasma generale lo Scipione cerca di salvare almeno le artiglierie ma è assalito da 400 cavalli e da ottocento contadini armati di schioppo che inseguono i suoi uomini nella palude. Si getta in acqua per salvarsi a nuoto ma è ferito ad una guancia da un colpo d’archibugio o da un sasso. Scrive il Sanudo: “Il 22 maggio 1514 Girolamo Savorgnan avrebbe voluto dar battaglia ai Tedeschi rinchiusi in Marano, ma i fanti veneziani ricusarono di combattere per la grande difesa dei nemici onde la città nostra è impensierita vedendo che non si può aver Marano perché il Savorgnan non è obbedito e perché i nostri soldati non vogliono la lotta” (Diari XVIII).

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Un Processo ‘Criminale’ a Muzzana nel XVII secolo - L’amministrazione della Giustizia ai tempi della Serenissima

Renzo Casasola
Premessa

In un manoscritto in copia del XVII secolo sono registrati gli atti di un Processo Criminale Sopra dispositione del Commune [di Muzzana] et altri Particolari Contro Giovanni Battista del Savio detto Bizzaro, Lucia sua moglie, Valentino suo figliolo, Domenego Pozziol, Clara sua sorella, Pietro Pozziol loro fratello, Betta moglie di Pietro Pozziol, Domenego Passalacqua, condanati et informati. Agli otto imputati, accomunati fra loro da vincoli di parentela, fu rivolta l’accusa di furto reiterato di, Biade, Vino et altre robbe, a danno dei signori Giacomo Ballandan e Andrea Grando ai quali si unì poi il Comune quale parte lesa. Il corposo faldone cartaceo di 334 facciate, di cui in questo contributo si è fatta una necessaria sintesi, fu rogato presso la Cancelleria dei conti di Colloredo nel biennio 1665-67, dopo che la fase istruttoria ebbe luogo nella villa di Muzzana, alla cui giurisdizione era soggetta, e nella quale presso la chiesa dello Spirito Santo si svolsero i fatti incriminati.Il Processo Criminale, nel corso del quale furono ascoltate e registrate decine di testimonianze dell’accusa e della difesa, evidenzia come fosse amministrata la Giustizia nel XVII secolo in Friuli, in cui i Signori di Colloredo-Mels, feudatari di Muzzana, godevano da parte di Venezia ancora di ampi privilegi nell’ambito della giustizia civile e penale. La lettura del verbale, inoltre, pone l’attenzione sui vari aspetti antropologici e sociali che caratterizzarono la società civile di quel periodo storico, inserita com’era in un rigido e immutabile sistema feudale.

L’accusa di furto e l’istruttoria preliminare

Nella tarda mattinata di sabato 14 marzo 1665, presso la Cancelleria Giurisdizionale dei conti di Colloredo posta nell’omonimo castello comitale, di fronte al signor Giovanni Francesco Muzzenino, Cancelliere, Auditore e Giudice per conto dei Consorti di Colloredo, fecero il loro ingresso tre uomini. Uno di essi, Gioseffo Dondo messo e ufficiale di settimana del Comune di Muzzana, si presentò e fece i nomi degli altri due: domino Giacomo Ballandan, commerciante di Marano, e missier Francesco Grando, possidente e commerciante di Muzzana. Tutti e tre sporsero una denuncia per furto reiterato di, biade, vini et altre robbe, avvenuto ai danni del Ballandan e del Grando nella loro caneva et granaro che era posta a, mezza via, sul lato, che dà a mezo giorno, della chiesa dello Spirito Santo di Muzzana.

Gli imputati erano i componenti di due famiglie del luogo le cui misere case erano contigue alla caneva. Nella prima viveva Giovanni Battista del Savio detto Bizaro, con sua moglie Lucia e il figliolo Valentino detto Tinazzo di soli dodici anni. I loro complici erano i componenti dell’altra: Pietro Pozzioli, sua moglie Elisabetta sorella di Lucia, Domenico e Chiara detta la gobba, rispettivamente fratello e sorella minori di Pietro. Con loro fu accusato di aver collaborato nei furti Domenico Passalacqua detto Bragan originario di Castions di Strada, giovane fameglio, al servizio del Grando. Il Dondo riferì al cancelliere che le vittime di quei furti erano certe della colpevolezza degli imputati ed erano disponibili a fornire le prove al cancelliere. Infatti, dopo che i due ebbero denunciato il furto agli huomini del Conseglio di Muzzana, questi ultimi con il consenso dei tre degani decisero seduta stante di perquisire le abitazioni della villa alla ricerca della refurtiva. E fu così che nelle case dei sospetti ladri ne ritrovarono una buona parte e alla domanda a loro rivolta da dove provenisse gli accusati non seppero dare risposte convincenti. Inoltre, a sostegno dell’accusa i tre uomini dichiararono al giudice che nella villa tutti sapevano che il Del Savio non possedeva campi e che il Pozzioli ne aveva solo alcuni, parte ceduti in affitto e parte abbandonati perché, mal li lavorava, ricavandone poco utile. Da dove provenivano dunque, tutte quelle biade et vino, occultate dagli indagati nelle rispettive abitazioni, i quali oltretutto ebbero l’ardire di accusare gli uomini del Conseglio di avergliele indebitamente sottratte con la forza? Da qui l’accusa per parte lesa da parte del Comune nei confronti degli imputati e la denuncia formale ai giurisdicenti di Colloredo.

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Furti e rapine nella Terra della Tisana

Furti e rapine nella Terra della Tisana

La prima notizia (almeno per il momento) di un furto che abbiamo trovato nei vari documenti risale al 13 dicembre 1308, quando il doge di Venezia Pietro Gradenigo (1251 -1311), sollecitò il gastaldo di Latisana a far restituire al macellaio veneziano Filippo, soldi 30 di grossi che gli erano stati sottratti dal suo domestico Domenico.

Sempre nel secolo XIV, avvenne un’altra rapina. Lo si viene a sapere quando il doge Francesco Dandolo (1258- 1339), il 9 novembre 1331 dichiarò di aver ricevuto lire 50 di grossi (pari a 100 denari d’argento), da mastro Paolo, procuratore del Comune di Latisana a risarcimento di ruberie commesse in quel territorio a danno di mercanti tedeschi.

Nel 1618 furono perpetrati a Latisana diversi furti sacrileghi nella chiesa detta di Santa Croce, ora scomparsa ma che si trovava nell’attuale piazza Indipendenza. Ad accorgersi di questi continui furti fu il sacrestano, il quale nel dicembre di quell’anno venivano rubate le offerte in denaro e gli oggetti, quali camicie, grembiuli, cor- doni, lino, ecc., che venivano portati per offerta o per “grazia ricevuta” all’altare della Madonna. Il sacrestano riferì quanto stava accadendo al pievano il quale gli disse di nascondersi in chiesa per scoprire chi fosse il ladro o la ladra. Il sacrestano si nascose per diversi giorni di seguito senza scoprire nulla. Un giorno però sentì che diverse donne avevano comprato chi una camicia, chi un fazzoletto da testa, chi altri oggetti, proprio quelli rubati in chiesa da una certa Maria Bassanino detta la Panzona. Al sacrestano non rimase che avvertire il pievano e i governatori della chiesa di S. Giovanni Battista, i quali denunciarono il fatto ai giudici che, a loro volta, il 26 dicembre, si riunirono per ascoltare le deposizioni dei governatori e del sagrestano. Seduta stante, decisero di far arrestare Maria Bassanino per furto e sacrilegio e il marito Daniele per complicità con la moglie.

Il 27 dicembre ebbe inizio l’escussione dei testimoni, o meglio delle testimoni che avevano comperato da Maria Bassanino oggetti da lei rubati in chiesa: tutte circostanziate confermarono in modo inequivocabile la colpevolezza di Maria. Fu interrogato anche il marito Daniele, il quale dichiarò di essere all’oscuro di questi furti così pure la figlia Domenica. Questa, venuta a sapere dei furti, le chiese spiegazione e lei si giustificò dicendo: «Che l’haveva tolte quelle robbe per agiustarsi et per sustentarsi essendo in bisogno et necessità grande, che però haveria pagata la luminaria».

Il 29 novembre venne interrogata Maria Panzona che confessò i furti, poi sollecitata dai giudici dichiarò che altre volte aveva rubato «libre quatro di lino pur in ditta chiesa di Santa Croce all’altar della Madonna et anco all’altare del Santissimo Rosario», inoltre disse che anche l’anno passato rubò nella stessa chiesa alcune libbre di lino.

Dagli atti non risulta che Maria Bassanino ebbe a subire una condanna per i furti commessi in chiesa, ma che mentre lei era in carcere, al pievano di Latisana giunsero delle notizie secondo le quali Maria Bassanino, oltre che ladra fosse anche strega, avendo «con la sua arte diabolica commesso diverse stregonerie».

Maria Bassanino detta la Panzona subirà tra il 31 dicembre 1618 ed il 25 luglio 1619, come presunta strega, due processi inquisitoriali uno a Latisana e uno a Ve- nezia e sarà condannata, a tre anni di carcere e ad essere espulsa dalla giurisdizione di Latisana, oltre ad altre pene penitenziali.

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I vecchi cimiteri di Casarsa e San Giovanni di Casarsa

Carmela De Caro

San Giovanni di Casarsa. Cenni storici.
Proponiamo alcuni cenni storici su S. Giovanni di Casarsa riferendoci allo scrit- to di Ernesto Degani “La diocesi di Concordia”. Don Degani fa risalire la pieve di San Giovanni all’epoca longobarda. La documentazione attesta che nell’anno 996 l’imperatore Ottone III di Sassonia (Kessel, giugno o luglio 980 – Faleria, 23 gennaio 1002) re d’Italia e di Germania dal 983 al 1002 e imperatore del Sacro romano impero dal 996 al 1002, concesse in donazione i beni demaniali situati tra i fiumi Lemene e Tagliamento al vescovo di Concordia Bennone (sec. X:7° vescovo 901 Adelmano, 8° 963-984 Alberico, 9° 996 Benno o Benone.)

Tra i beni donati vi era anche il territorio di San Giovanni. Successivamente, in un altro documento, la Bolla di Urbano III del 1166, è riporta la frase: “Curtem de Santo Johanne cum omibus a sé pertinentibus scilicet Villa de Versia usque a Casarsa et decimis Sancto Vito cum manso uno”. Si deduce quindi che alla fine del XII secolo San Giovanni era identificata come curtis e che la sua giurisdizione riguardava la terra compresa dalla villa di Versutta fino a Casarsa oltre alle decime spettanti e un manso situato in San Vito.

Tuttavia S. Giovanni non è citata come plebs nella rimanente parte della Bolla tra le pievi allora esistenti e sottoposte spiritualmente a Concordia e, certo, quest’assenza fa insorgere molti dubbi. A tal proposito don Degani formula l’ipotesi che si sia trattato semplicemente di un errore o omissione commesso dallo scrivano/amanuense all’atto della redazione del documento.

Non conosciamo l’epoca precisa in cui San Giovanni divenne matrice; è comprovato che da essa si originarono le chiese di San Vito al Tagliamento, Casarsa, San Lorenzo di Arzene e Prodolone. La chiesa di San Vito si separò dalla sua matrice molto probabilmente ancor prima del 1258 e, certamente, era indipendente nel 1353; le altre chiese furono indipendenti rispettivamente nel 1444 (Casarsa), nel 1586 (S. Lorenzo) e, prima del 1558, Prodolone.

Nel suo territorio, San Giovanni annovera ben quattro chiesette votive: Sant’Antonio Abate a Versutta o Villa Versa databile intorno alla metà del Trecento, e poi soggetto alla spettanza di Prodolone dei conti di Mels, San Floriano nel borgo medesimo, quattrocentesca (San Floreano è già menzionato in un atto del 1434 forse in memoria d’invasioni o incendi), Sant’Urbano in località Runcis risalente al XVII secolo, Santa Margherita in borgo Sile datata inizi Cinquecento. Il conte di Prampero, nel suo Glossario, riporta un’annotazione risalente al 1182 “Silum cum curte et oratorio”. Sile, poi, fu soggetta alla pertinenza dei nobili di Cusano.

E quale pieve, San Giovanni, oltre ad essere nucleo dell’organizzazione ecclesiastica, praticava le funzioni civili e amministrative tipiche del municipio romano, assumendo il ruolo di “centro” del territorio di competenza. Alla fine del XII secolo, infatti, con Meduno e Portogruaro, era sede di tribunale per decisione e in rappresentanza dell’autorità vescovile. A S. Giovanni, come nelle altre località menzionate, si amministrava la giustizia e si emettevano sentenze. A tal proposito, si conserva presso l’Archivio Storico Diocesano un documento risalente al 1192.

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La bolla papale In Coena Domini

Gianni Strasiotto

Il Settecento è ricordato come il secolo dell’Illuminismo, ossia della luce della ragione contro i pregiudizi. Le classi meno fortunate delle nostre terre, tuttavia, non videro nessuna luce, anche se per loro fu un secolo tranquillo, ma prima della sua fine si verificarono dei fatti che sconvolsero totalmente la vita di tutta la nostra regione…e anche dell’Europa. Merita attenzione inoltre, la dura reazione di censura della Repubblica di Venezia contro la bolla papale “in Coena Domini”, come si vedrà più avanti.

Nella diocesi di Concordia - in questo secolo - c’è comunque un impulso culturale: nel 1703 è avviato il Seminario vescovile di Portogruaro: diverrà nel secolo successivo uno dei più qualificati del Regno Lombardo-Veneto, indicato al secondo posto dopo quello di Padova.

Con riferimento alla nostra regione, una notizia importante riguarda il patriarcato di Aquileia: lo stesso aveva iniziato il suo declino dall’arrivo della Repubblica veneziana: fin dal Cinquecento era stato abolito il rito patriarchino (1) e, dal terzo decennio del ‘600, Ferdinando II d’Austria aveva proibito ai suoi sudditi di riconoscere l’autorità del patriarca.

Tra la Repubblica di Venezia e l’Austria erano sorti nel tempo dei contrasti che portarono poi alla divisione del territorio soggetto alla giurisdizione patriarcale in due zone d’influenza. Questo avvenne nel 1751 quando - anche su pressioni di Maria Teresa d’Austria - il Papa Benedetto XIV, per porre fine alla secolare controversia, con la bolla Injuncta nobis del 6 luglio abolì subitaneamente il suddetto pa- triarcato dividendolo nelle arcidiocesi di Gorizia e di Udine. La prima fu costituita nel 1752 e comprendeva anche le diocesi di Trieste, Pedena (Croazia, ora soppressa, fu una delle più piccole diocesi al mondo), Trento e Como. La seconda fu creata il 19 gennaio 1753, con alle dipendenze le diocesi di Padova, Vicenza, Verona, Treviso, Ceneda (Vittorio Veneto), Belluno-Feltre, Concordia, Capodistria, Cittanova (Istria), Parenzo e Pola.

Nel 1762 Antonio Zanon fonda a Udine la Società di Agricoltura, che fu la seconda accademia agraria d’Italia, dopo quella dei Georgofili di Firenze, da cui tutta l’agricoltura friulana ricaverà grandi benefici, grazie all’opera divulgativa iniziata dallo stesso Zanon.

Nel 1765 Venezia provvede alla limitazione del pensionatico (diritto di pascolo dietro pagamento di una pensione annuale) sulle comugne, (dette anche comunali, comunai e comugna) - cioè su gran parte dei terreni adibiti da secoli a territorio collettivo - di ciascuna “villa” (villaggio): si trattava per lo più di prati e boschi, il cui uso era regolato per consuetudine dalla vicinia, l’assemblea dei capifami- glia. Nel 1786 questa restrizione viene confermata e aggravata con l’abolizione degli usi di pascolo o una loro forte riduzione; viene favorita la chiusura dei terreni: nasce la mezzadria pura o, in limitati casi, la conduzione diretta del fondo rustico. Inizia il vero e pro- prio sfruttamento delle campagne ad opera non più della vecchia nobiltà castellana o della manomorta (il patrimonio ecclesiastico accumulatosi da Costantino fino al 1954), ma da parte dei borghesi arricchitisi con i commerci.

Venezia interviene con limitazioni anche nei confronti della Chiesa. Gli interessi economici e commerciali della città mercantile spesso non sono compatibili con la politica romana. E’ avversata la ricchezza della Chiesa e Venezia è contraria alle donazioni in favore di opere pie, chiese e monasteri, ritenendole spesso “orientate” dagli uffici notarili, gestiti per tutto il medioevo da preti-notai.

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CARBONA, già Villa Bianchina, di San Vito

Gianni Strasiotto

Don Giacomo Bianchini (1875-1954), apostolo dell’esperanto, tanto da essere eletto segretario generale degli Esperantisti Cattolici (1) , studioso di Sacra Scrittura, parroco di Cimpello, è ritenuto il più illustre figlio di Carbona, piccola località a ridosso del fiume Tagliamento e in perenne lotta con le sue acque. La frazione appartiene al Comune di San Vito al Tagliamento e dista dal capoluogo circa sei chilometri a levante.

Religiosamente apparteneva all’antica Pieve di Rosa e quindi all’Arcidiocesi di Udine, essendo un tempo situata sulla riva sinistra del fiume; era diventata poi un’isola e infine si è trovata sulla sponda destra.

Questo perché il Tagliamento cambiò più volte letto dividendosi alla fine tra Bando (Morsano al Tagliamento) e Bugnins (Camino al Tagliamento); l’uno dei rami prevalse ed è l’attuale corso del fiume, che distrusse Rosa due volte, l’altro ramo è la Roggia, per molto tempo con una considerevole portata, che è andata però via via prosciugandosi.

Il suddetto sacerdote ha pubblicato molti scritti in esperanto, compresa una diffusa grammatica, e ha lasciato numerosi inediti. Tra i tanti, anche alcuni appunti sulla sua piccola frazione, nei quali afferma come fosse in precedenza denominata Villabianchina, per essere stata fondata e in prevalenza abitata da famiglie di nome Bianchini: infatti, dalla fondazione attorno al 1600 e fino al 1845 - quindi per due secoli e mezzo - gli abitanti della località furono tutti Bianchini.

Partendo dalle sue indicazioni abbiamo approfondito la ricerca e proponiamo i risultati.

Nel 1596 un’alluvione eccezionale distrugge i Castelli di Varmo, Belgrado e Bugnins, lasciando il terreno coperto di ghiaia e di sterpi.

Pochi anni dopo Carlo Bianchini di Saletto (Morsano al Tagliamento) s’insediò nella zona detta dei “Casali di Bugnins”, così nominati per la vicinanza del castello omonimo; successivamente i cinque figli maschi misero su famiglia, costruirono altrettante modeste abitazioni, ognuna col suo pozzo e il suo forno, e per moltissimo tempo non ci furono altre perso- ne invogliate a prendere dimora nella zona tanto isolata. Al tem- po di lì passava una larga strada, detta la Stradatta, che da Sacile e Pordenone conduceva all’Ospizio dei Benedettini di Pieve di Rosa, continuando poi per Codroipo e Aquileia. C’era quindi un agevole guado e da lì partiva poi anche la strada - detta del Morti - per arrivare a Saletto e Ramuscello, oltre ad altri sentieri e strade che non hanno lasciato traccia.

Alcuni identificano la strada con la Postumia antica che attraversava tutta l’Italia Settentrionale, partendo da Vada Sabatia (tra Albenga e Savona) e terminando ad Emona Julia (Lubiana) nella Pannonia Superiore, toccando ne suo corso Clastidium (Casteggio-Oltrepo Pavese), Placentia, Mantua, Verona, Vicentia, Opitregium, Aquieja e Fornuli.

I pozzi familiari furono eliminati del tutto solo dopo il 1885, quando si cominciò a scavare per costruire i pozzi artesiani, e la loro scomparsa eliminò anche il gozzo di quella povera gente. La malattia, consistente nel cattivo funzionamento della tiroide, dipendeva dalla carenza di iodio nell’acqua potabile.

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