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copertina numero 84 la bassa

la bassa/84

anno XLIV n. 84, luglio 2022

Estratti di
articoli e saggi
della nostra rivista

In copertina:
Particolare della carta
Fori Iulii accurata descriptio
dal “Theatrum Orbis Terarum
di Abraham Ortelius (1527 - 1598)
Anversa 1573

Il “mai” di Flambro

Sommario


Editoriale

Roberto Tirelli
Ai vecchi e nuovi collaboratori

La rivista è ben lieta di accogliere il contributo di tutti coloro che desiderano collaborare con brevi saggi, studi, risultati di ricerche, articoli, interventi di natura culturale riguardanti la Bassa friulana sia sulla sinistra come sulla destra del Tagliamento.

Il materiale che si desidera pubblicare va inviato via mail a roberto.tirelli@hotmail.it

Se il contributo è cartaceo si prega di contattare il numero 3427029008 per la consegna.

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Il culto delle reliquie nella chiesa aquileiese (e San Felice di Flambro)

Roberto Tirelli

Sin dall’arrivo della religione cristiana in Aquileia, le reliquie dei santi (part. passato da sancire –rendere sacro- persone degne di venerazione) hanno avuto una grande importanza come fondamento delle comunità dei credenti, testimonianza di una fede quasi sempre eroica sino al martirio. Agli inizi del cristianesimo vi erano aree riservate cimiteriali, dove avevano trovato sepoltura i martiri caduti durante le persecuzioni e questi spazi funerari erano frequentati per motivi devozionali dai fedeli della comunità cittadina aquileiese. Ciò avveniva generalmente ovunque non ci fossero delle catacombe o luoghi similari e ne parlano i rescritti degli imperatori Valeriano e Gallieno degli anni 257 e 260, nei quali si ricordano “i luoghi dei cosiddetti cimiteri”, prima preclusi ai cristiani per le riunioni (collegate, evidentemente, all’esistenza di tombe di martiri), che verranno prima requisiti e poi restituiti. Con la fine delle persecuzioni laddove sono poste le reliquie dei martiri lì è la Chiesa e il culto di esse viene accettato e permesso dalla fin dalle origini come segno di pietà e comunione con i fratelli che avevano manifestato la loro fedeltà a Cristo fino al sacrificio estremo della vita non di rado sotto inenarrabili torture.

A fondamento del culto delle reliquie vi è il dogma della resurrezione della carne e la fiducia del potere dell’intercessione dei santi oltre ad un passo dell’Apocalisse di San Giovanni (6,9-11,20) ove si afferma che le anime dei martiri raggiungono il paradiso prima dl giudizio universale. Non si tributa alle reliquie un culto di latria, non si adorano, bensì scrive San Girolamo contro l’eretico Vigilanzio – “si venerano le reliquie dei martiri per adorare colui del quale si sono martyres”, cioè testimoni di Dio.

La “rievocazione” delle gesta dei martiri era fatta, molto probabilmente con la lettura del racconto del martirio, la cosiddetta “passio” nel corso della celebrazione liturgica della loro “memoria”. Sant’Ambrogio esorta i fedeli ad indirizzare le loro preghiere ai martiri, perché intercedano al fine di farci ottenere il perdono dei peccati. Sant’Agostino conferma il consolidarsi del culto nel IV secolo nel pieno di un dibattito aperto da un monaco che definisce coloro che venerano le reliquie come idolatri ed adoratori di ceneri, concetto che verrà ripreso secoli più tardi da Lutero.

La venerazione era tale che l’Eucarestia si celebrava sopra le reliquie dei martiri. Questa consuetudine si diffuse al punto che dal secolo VIII su nessun altare mancava la “pietra sacra” contenente le reliquie di un martire.

La parola reliquia deriva dal latino relinquere, lasciare, abbandonare, e indica ciò che resta del corpo dei santi dopo la loro morte;in senso ampio indica anche oggetti a loro appartenuti o venuti a contatto con loro. Questi “resti” diventano venerabili perché c’era bisogno di qualcosa di concreto, di materiale, da toccare, da vedere, per mantenere la fede e la memoria, pregare, chiedere grazie, trovare un “patronus”che goda della vicinanza di Dio e dunque sia in grado di beneficare i suoi “clientes” spirituali.

Nel 304 Asclepia di Salona (Dalmazia) fa portare nel suo mausoleo i resti del martire aquileiese Anastasio per essergli vicina il giorno della resurrezione del morti, come garanzia di accompagnarlo in paradiso.

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Su alcuni toponimi di Meduna di Livenza condivisi con i comuni vicini

Pier Carlo Begotti

Tra i meriti di don Leonardo Fabris, dal 1965 parroco di Brische fino alla prematura scomparsa (1984), ci fu la pubblicazione del «Bollettino Parrocchiale», iniziata alla fine dello stesso anno del suo ingresso in paese. Nel periodico uscirono anche articoli di storia locale e ci fu chi si cimentò pure in disquisizioni etimologiche sui nomi di luogo, sia raccogliendo gustose ricostruzioni popolari di fatti e fenomeni del passato, sia dando spazio a deliranti proposte assai lontane dal rigore scientifico e a volte del buon senso. Ecco quindi che Fossamulan diviene la fossa in cui i lupi, usciti dalle Lovere, avrebbero fatto strage di mule; ovvero che l’attuale via Belvedere sarebbe solo l’ultima reliquia di una città romana, distrutta dall’immancabile e onnipresente re unno Attila; o, ancora, che l’appellativo di Brische trarrebbe origine da un *brisch presente in fantomatiche «lingue antiche» con il significato di «punto o luogo più lontano» (da cosa?) e via dicendo con simili amenità. In realtà, questa serie di toponimi, assieme ad altri, si presta ad alcune considerazioni anche di ordine generale. Iniziamo quindi con la citazione di un documento antico, chiarendo che stiamo parlando del territorio comunale di Meduna di Livenza (Friuli storico), già castello, giurisdizione e pieve patriarcale, che comprende anche la frazione e parrocchia concordiese di Brische. Le citazioni archivistiche (e bibliografiche) saranno solo indicative, non certo esaustive.

Marigonda

Un regesto del Thesaurus Ecclesiae Aquileiensis, relativo all’anno 1376, parla di beni patriarcali in località Marigonda, territorio dipendente dalla giurisdizione di Meduna: in pertinentiis Medune in loco vocato Marigonda. Parimenti, durante la visita pastorale (placito di cristianità) del 6 ottobre 1490, ser Nicolò Grimaldi riconosceva di pagare una decima al locale pievano per un campo nominato Marangonda sito in pertinentiis Medunae. La borgata di Marigonda esiste tuttora e appartiene però al villaggio di Navolè, in comune di Gorgo al Monticano (Treviso), circostanza che ha creato qualche problema di interpretazione: infatti, il fiume Livenza, un vero e proprio confine fisico e politico, scorre tra questo insediamento rurale, sempre appartenuto a centri di potere della Marca trevigiana, e Meduna, castello della Patria del Friuli. Non si aveva alcuna memoria di forme di dominio o di possedimenti patriarcali in tali ambiti. La lettura di altri documenti ha risolto ogni dubbio e, anzi, ha aperto una serie di riflessioni su appellativi locali che potremmo chiamare «toponimi dirimpettai», perché si ripetono uguali sui due lati di un corso d’acqua: si sono sviluppati, secondo il nostro parere, o perché uno già formato ha “attratto” l’altro (come vedremo nei prossimi tre casi medunesi) o perché rispondono a medesime sollecitazioni paesaggistiche, ovvero interpretano con la stessa designazione un fenomeno comune, pur appartenendo ad ambiti insediativi e politico-amministrativi diversi. Per esempio, sulle due sponde del fiume Livenza esiste sulla sinistra una Via Rosa a Navolè di Gorgo al Monticano (nella Marca trevigiana ed ecclesiasticamente nelle pertinenze dell’abbazia di Santa Maria di Pomposa), mentre sulla destra è documentato un Roxe, Rose (nella Patria del Friuli ed ecclesiasticamente nelle pertinenze del monastero camaldolese di San Martino Rotto), con derivazione quindi da [e]rosa, indicante l’azione erosiva delle acque, come Rosa di San Vito e di Camino al Tagliamento.

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La condizione degli agricoltori nei primi decenni dell’Ottocento in un’area della Bassa friulana “di ca e di là da l’aghe”

Benvenuto Castellarin

Il Governo austriaco, dopo aver proclamato il Regno Lombardo Veneto, e ridisegnato il comparto territoriale iniziò ad emanare, a partire dal 1817, diverse leggi e decreti tendenti ad aggiornare il catasto iniziato dai francesi. Nel 1826 iniziò la fase operativa che doveva portare all’attuazione di un nuovo catasto, allora definito stabile. A tale scopo il governo, onde rendere uniforme la compilazione dei vari elaborati, pubblicò gli Atti preparatori per la formazione del Censo Stabile, una serie di norme e istruzioni che dovevano servire ai periti estimatori per un nuovo classamento dei beni immobili al fine di determinare il reddito imponibile. All’interno di questi atti assumono una particolare rilevanza le Nozioni Generali Territoriali, un dettagliato questionario, le cui risposte analizzavano le diverse situazioni ambientali, socio-economiche e sulle pratiche agrarie in uso nei singoli comuni censuari. Nello specifico le nozioni prendono in esame, ad esempio, le monete allora in uso, i pesi e le misure, la descrizione del comune, la natura dei terreni, i prodotti agrari principali, il sistema di lavorazione dei terreni e i relativi affitti, i corsi d’acqua, le strade, le case coloniche, i pascoli, i boschi, il bestiame, ecc. Di questi argomenti abbiamo ritenuto utile illustrare le risposte date dai periti estimatori sulle condizioni sociali in cui si trovavano i contadini di allora: per evitare inutili ripetizioni, abbiamo raggruppato le risposte che sono simili, mettendo in risalto quelle che si differiscono.

I comuni censuari indagati, di ca da l’aghe (alla sinistra Tagliamento) non sempre coincidenti con i comuni amministrativi, sono: Ariis; Bertiolo con Sterpo; Camino di Codroipo; Campomolle; Chiarmacis; Driolassa con Rivarotta; Gorgo di Latisana; Latisana con Latisanotta; Madrisio con Canussio; Muzzana; Palazzolo; Pertegada; Piancada; Pocenia; Pozzecco con Virco; Precenico; Rivignano; Ronchis con Fraforeano; Sivigliano con Flambruzzo; Talmassons con Flambro; Sant’Andrat con Flumignano; Teor; Titiano; Torsa con Roveredo e Paradiso; Villa di Varmo con Belgrado, S. Marizza, Gradiscutta e Cornazzai; Volta (di Latisana). Diamo per completezza anche i comuni amministrativi con le attuali denominazioni: Bertiolo, Camino al Tagliamento, Latisana, Muzzana del Turgnano, Palazzolo dello Stella, Pocenia, Precenicco, Rivignano-Teor, Ronchis, Talmassons, Varmo.

Nelle nonzioni si parla di “agricoltori”, intesi però coloro che coltivavano effettivamente la terra, siano essi braccianti, coloni o piccoli coltivatori, con l’esclusione, quindi dei possidenti i quali generalmente vengono definiti “padroni”.

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Antroponimia storica e ipotesi sui flussi migratori a Teor, Campomolle, Driolassa, Chiarmacis e Rivarotta

Mauro Buligatto

Dopo cinque anni di lavorazioni e incontri, fra vari appassionati studiosi, si è giunti alla realizzazione di un progetto editoriale. Nel 2017 è stato pubblicato un volume, a cura di Roberto Tirelli, dal titolo IL COMUNE DI TEOR - Gente e paesi nella storia. Tra i diversi autori che hanno dato il loro apporto, quello di Benvenuto Castellarin è stato sicuramente determinante. Sono svariati i suoi saggi creati per questo libro ma quello denominato “Cognomi del passato e del presente nel comune di Teor” è il risultato di una lodevole attività di ricerca archivistica (Castellarin 2017, 283-288). Questo suo specifico lavoro è stato un buonissimo spunto, che mi ha dato la possibilità di approfondire un tema caro: l’onomastica antica delle frazioni di Teor, Campomolle, Driolassa, Chiarmacis e Rivarotta; ovvero l’antico corpus territoriale dell’ex comune. L’ulteriore ausilio che ha permesso di rendere complete le nostre considerazioni è stato il lavoro svolto da Enos Costantini nel 2002, qui più volte citato. Grazie alla realizzazione del progetto “Friul in prin” inoltre, a cura dell’Archivio di Stato di Udine, è stato possibile consultare online la banca dati di un articolato archivio storico delle famiglie friulane (www.friulinprin.beniculturali.it). Qui le datazioni registrate si sviluppano per un arco temporale compreso fra la prima metà dell’Ottocento e gli inizi del secolo scorso. Tale spoglio è stato utile per comprendere la distribuzione areale delle frequenze, cognome per cognome. Lo sforzo di ampliare il volume informativo su parte di questi cognomi storici, ha dato forma alla nostra ricerca. Tornando al repertorio del Castellarin abbiamo deciso di restringere il campo di analisi ai dati più antichi, a quelli che si rivelavano più oscuri ovvero meritevoli di ulteriori attenzioni. Oltre la mera ricerca etimologica si son cercate di ipotizzare, dietro al cognome, le possibili dinamiche demografiche: un tentativo di stabilire un’anteriore zona di residenza e partenza. Questo pur di fronte a nomi di famiglia attestati in area d’indagine da secoli ma che facevano presagire, tramite alcuni elementi, un arrivo da altri luoghi.

La breve ma dovuta premessa alla successiva parte analitica inizia con una compagine di elementi ascrivibili a provenienze dal Veneto. Baldù e Venier> in primis erano nomi di casato nobiliare i quali, a seguire, svolsero probabili funzioni di soprannome e cognome. A tutti gli effetti un identificativo per quelle famiglie che in antico furono soggette a dette nobiltà. Attestazioni archivistiche che nella sezione dettagliata si ritroveranno portano poi a un Burani, agente della Casa Strassoldo, nonché a un ulteriore Burano, parroco officiante a Muzzana del Turgnano nel 1569. Esse confermano il concetto di persone foreste dipendenti che arrivarono, perché chiamate in zona per svolgere una qualche funzione. Pilotti e Travisan parimenti potrebbero essere in simmetria a ciò, magari avendo a mente l’istituto contrattuale della mezzadria. In Duse assistiamo a un utilizzo del nome di carica per distinguere genericamente genti venete. Carlotto, temporalmente il più vicino a noi, risponderebbe invece a un arrivo autonomo, durante le migrazioni del XVIIII secolo, per soddisfare bisogni di miglioramento sociale. La montagna carnica dà il suo contributo con gli elementi Burba e Comissi che verosimilmente si associano a flussi migratori di mastri artigiani tessitori, così come per Cargnello. Non si dimentichi però la notorietà di quest’ultimo etnico che contraddistinse pure una comunità di merciaioli ambulanti, meglio noti come Cramârs. Grignas è abbinato a provenienze concernenti la micro-toponomastica mentre Spangaro evoca passati uffici/esercizi propri di funzionari pubblici. Dalle isole alloglotte tedescofone, sempre in Carnia, registriamo i cognomi Plozzer e Plozzar. Con breve parentesi si cita Cresingher un ulteriore germanismo però proveniente da una cittadina a est di Amburgo. Ma non è finita per quanto riguarda l’apporto onomastico della montagna. Invero dalla Val Colvera nel pordenonese si elencano il personale germanico Bernardon e l’etnico Frisan, entrambi “scesi” da Frisanco. Infine dalla Val Meduna si segnala un intuibile Tramontino. I cognomi Crasnigh, Cudin, Palich e Vetac appartengono all’onomastica slava. Il che non deve meravigliare perché il territorio, qui oggetto d’indagine, contiene elementi dello stesso ambito linguistico, presenti nel lessico e nelle denominazioni di luogo. Alcune attestazioni centro-peninsulari chiudono il preambolo. Sono Barbante, di umile estrazione, Napulini etnico di facile comprensione, i toscanismi Pucchio e Vaselli esiti da personali.

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Pastorizia e toponomastica nella Bassa Friulana tra lo Stella e il Cormor

Renzo Casasola

Alcuni nomi di luogo della bassa pianura friulana testimoniano antiche ed estinte attività antropiche, attive nell’Età di Mezzo, legate alla pratica della pastorizia. Molti di essi non sono più produttivi tra il volgo, pochi altri sopravvivano nelle mappe catastali nel loro oscuro significato etimologico; pur tuttavia ci rammentano quelli che furono un tempo gli strumenti primari di produzione agraria e selvicolturale dei nostri progenitori. Sono in sostanza dei veri e propri archivi etimologici, occulti e negletti, ove si celano vetusti e preziosi frammenti di storia delle nostre comunità rurali. In questo contributo si pone l’attenzione su alcuni di essi inseriti tra le comunità di Pocenia, Muzzana del Turgnano e San Gervasio, legati all’antica pratica della transumanza planiziale. Nel dare un significato a quei toponimi si è cercato di definire quelle che furono i fattori causali antropogeografici che li determinarono.

È noto che le terre comuni, meglio note come comugne, nel Medioevo erano delle ampie aree comunitarie godute dai contadini di una specifica villa, ma alcune di esse, di solito quelle più vaste, erano consorziate tra comunità limitrofe. Le comugne erano mantenute a prato, a boscaglia e largamente paludose; inserite per lo più nelle aree marginali erano le meno produttive del territorio comunale, in quello che un tempo era definito l’ager exclusus cioè escluso dalla centuriazione e soggetto a maggior rischio idraulico. In esse i contadini conducevano i propri armenti al pascolo libero ma a volte li affidavano ad un mandriano o pastore comunale, meglio noto con l’epiteto friulano di armentâr o piorâr. Ed è proprio lungo quei tratturi, o armentaresse, cioè le antiche vie di traffico che si snodavano tra le comugne ed i villaggi rurali, che si inseriscono i nostri toponimi quali, ad esempio: Scludiz e Cosutto a Muzzana. In queste vaste aree si possono così riconoscere quelli che erano gli elementi arcaici di transizione tra la libera pastorizia nomade ed il ricovero degli armenti in stalla nei villaggi di appartenenza.

Durante la buona stagione, che generalmente iniziava alla fine di marzo per protrarsi a tutto ottobre, mandrie di bovini, cavalli e ovini sostavano all’addiaccio in ricoveri di canne e paglia spesso recintati con palizzate e piante arbustive a protezione dei predatori naturali rappresentati dai lupi. In mezzo all’area così delimitata vi era di solito il cason, la rustica abitazione dell’armentario, eretta utilizzando cannucce, saggina e paglia (Lorenzi 1905: 191-193). Al pastore era affidato l’ingrato compito e la responsabilità di sorvegliare il recinto e gli animali del villaggio. Nella Bassa Friulana il cason aveva una tipica pianta rettangolare con lo scheletro strutturale realizzato in palizzata. Il tetto poi era ricoperto di cannuccia e saggina ed era a due spioventi non troppo inclinati. Il settore posteriore era arrotondato, univa e faceva scendere lo spiovente con forte inclinazione. Nel cason, che poteva avere carattere di complementarietà alla casa, vi era un modesto giaciglio e un focolare. Addossate alle pareti vi erano riposti gli attrezzi da lavoro più in uso, di solito pale, falci, forconi, scuri e l’immancabile massànc.

Nella vasta area intercomunale della comugna dello Stroppagallo (Casasola 2013: 7-14), posta tra Pocenia e Muzzana, si possono tuttora identificare due di questi antichi ricoveri. In quel di Pocenia presso gli omonimi casali a sud di Torsa, noti anche come casali Nardon e, a circa tre chilometri più a valle a Muzzana negli analoghi casali Stroppagallo. I due edifici erano collegati tra loro lungo l’asse nord-sud da un antico tratturo interrotto definitivamente dal tracciato dell’A4 nei primi anni sessanta del ‘900. Per quelli di Muzzana la strada era denominata la via di Flumignano (a.1652 Castellarin 2003: 688), in quanto serviva con Torsa e Pocenia anche quella comunità. Del casale di Muzzana si ha notizia dal 1707 “casa eretta sopra fondi di pubblica ragione […] per il passato goduta dal Commun” (ACMUd, fasc. 543), dunque in tale data era già ceduta ai privati e che, nel 1768, era “coperta di coppi e di paglia […] terra del Comun ora delli signori Zignoni (ACMUd, fasc. 447). Ceduti ai privati nella seconda metà del XVII secolo i due antichi ricoveri pastorali subirono nei secoli ampi rimaneggiamenti strutturali cambiando destinazione d’uso e perdendo così quell’antica funzione specifica.

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In ricordo del poeta Nelso Tracanelli a 20 anni dalla sua morte 2002-2022

Enrico Fantin

Sono trascorsi venti anni dallas comparsa del poeta Nelso Tracanelli ed è opportuno e doveroso ricordarlo attraverso queste pagine stilate in occasione della “Setemane de culture furlane”, a cura della Società Filologica Friulana. Il primo impatto con Nelso, per me, è stato il 17 settembre 1978, in occasione del 55° Congresso della Filologicaa Latisana, e quello che mi ha colpito è stata la poesia, apparsa sul “Sfuei special da ‘la bassa’ - Cumitat pa la furlanitàt dai Mandamens di Tisana e Puàrt”:

Nelso Tracanelli

A LA ME TIÀRA
Ancòra, ència cà zu, tiàra furlàna,
furlàna la to zent lavoradòra,
furlàn il fevelâ…e spéta e ’dora
furlàns starin e sarin part sicùra
da la Pissula Patria dal Friûl!
L’aga dal Timént ta la planùra
no pol dividi in doi un popul sol.
Vulìn unî cul vostri il nostri flun.
Fradis, judèni! I sin cà éncia nun!



Nelso Tracanelli



Seguii poi Nelso nelle sue presentazioni di libri, che ebbero sempre ammirazioni da un vasto pubblico. All’assemblea de ‘la bassa’ tenutasi a Fossalta di Portogruaro il 7 aprile 1991, Nelso Tracanelli ebbe un solo voto, mentre come consigliere anziano risultai eletto io, avendo ottenuto la maggioranza dei voti, forse perché aveva curato il volume “Le alluvioni del Tagliamento a Latisana e nei comuni della Bassa friulana”, dando un grande risalto politico al problema ancora irrisolto per le popolazioni dell’area.

Or bene, come si legge dai verbali: “Il consigliere anziano Enrico Fantin, convocò i nuovi consiglieri e, per permettere un’alternanza al cambio dei vertici de “la bassa”, illustrò ai presenti le sue intenzioni e cioè di dare le proprie dimissioni di consigliere per permettere a Nelso Tracanelli di entrare in consiglio come presidente. Il consiglio respinse la proposta, ma Fantin insistette nelle sue intenzioni dicendo di rimanere come cooptato e di dare la massima collaborazione”.

Fu così che il poeta Nelso Tracanelli divenne presidente dell’Associazione “la bassa” dal 1991 al 1995

Nelso Tracanelli

Nelso Tracanelli era nato a San Michele al Tagliamento nel 1934. Il padre, di mestiere, faceva il falegname, mentre la madre era figlia di contadini, al cui mondo egli risultava essere profondamente legato, in quanto vissuto in prima persona e nuovamente rivisitato nella sua opera letteraria. La civiltà contadina, che sta alla base della lingua friulana, e una civiltà da tempo immemorabile vincolata alla terra, al ciclo della vita, che si riflette con il cambio delle stagioni e con i ritmi legati alla semina e alla raccolta dei prodotti agricoli. Ad essa si associava la civiltà della stalla, poiché d’inverno diveniva un importante luogo ricreativo dato che in esso si svolgevano varie attività della vita agreste. Di entrambi questi mondi Tracanelli si sentiva figlio.

Da fanciullo, ha vissuto gli orrori della guerra, e, in seguito, ha manifestato la sua vocazione per intraprendere studi umanistici. Conseguita l’abilitazione magistrale a San Pietro al Natisone, accetta l’incarico di divenire vicedirettore del Collegio-convitto.

Ha prestato servizio militare nel 7° reggimento di stanza a Tai di Cadore, frazione di Pieve, in qualità di sottotenente di complemento degli Alpini. La sua attività lavorativa coprì un lasso di tempo di ben 37 anni, che lo videro impegnato soprattutto nel campo educativo. Infatti è stato insegnante elementare a Malafesta, San Giorgio al Tagliamento, San Michele al Tagliamento, Caorle e altre minuscole località disseminate lungo il territorio del Comune di San Michele, ricoprendo anche cariche di prestigio, come quella di direttore didattico a Malafesta.

Dedicatosi all’insegnamento, l’attività di educatore non gli impedì di impegnarsi per la sua Comunità come amministratore civico per ben vent’anni. Intanto maturava in lui la vocazione poetica.

“Vorrei - diceva - raccontare le molte cose che ho visto e vissute e che sento dentro di me”.

Prosegue, intanto, il suo impegno civile con la fondazione del Gruppo Alpini a San Michele, inserendolo nella Sezione di Venezia (del motto: Alpini di quota zero) diventandone capogruppo, e la nascita dell’AVIS, assumendone la presidenza.

Nel 1975 pubblica la prima raccolta di poesie, ‘Par êsi’, che è il primo biglietto da visita come poeta.

Nel 1978, il Congresso a Latisana della Società Filologica Friulana si è rivelata come un’altra occasione per Nelso per farsi conoscere ulteriormente. Quindi l’incontro con il dr. Ciceri, vicepresidente della Filologica, la nascita de ‘la bassa’, di cui diverrà presidente per un quadriennio, e la sua entrata nella Società Filologica Friulana, dove farà sentire la sua voce di friulano della Destra Tagliamento. Altre presenze di Nelso sono state la Fondazione Colluto e il Premio Barba Zep.

Lungo sarebbe l’elenco delle sue opere, oltre una ventina le più significative, senza contare gli articoli e gli interventi pubblicati su giornali e sulle riviste locali. Egli ha ammesso di aver iniziato tardi a scrivere in friulano, nel 1975.

La sua scrittura ha subìto nel tempo un’evoluzione in quanto costretta ad adattarsi alle norme linguistiche divulgate dalla Società Filologica Friulana. La sua è una scrittura un po’ forzata, è una lingua, a suo dire e di altri studiosi, sperimentale, nuova, che mette alla prova un linguaggio mai evidenziato in precedenza, ma che è una variante del friulano classico a tutti gli effetti. È il friulano parlato a San Michele e paesi limitrofi, quello che Nelso Tracanelli chiamava ‘friulano della terra di Tisana’, la terra a cui lui si sentiva visceralmente di appartenere. Tracanelli non si era associato a nessuna scuola letteraria, era un uomo che si è formato da solo, con le proprie forze, leggendo e scrivendo per conto proprio.

Il mondo che ha raccontato ha intenso sapore friulano. L’idioma friulano viene parlato in molti focolari domestici del Veneto Orientale, anche a casa dello stesso Tracanelli. La sua famiglia parlava friulano, i suoi amici erano friulani.

L’universo letterario di Nelso Tracanelli comprende vari articoli; saggi e poesie sparse, divulgati su riviste o su numeri unici, due raccolte di poesie, intitolate Par êsi (1979) e Puisia (1981), e diverse opere in prosa contenenti moltissimi racconti scritti in friulano.

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I Madrisotti da Madrisio a Lavariano

Claudio Madrisotti

MADRISOTTI è il cognome che il mio PapàGelasio(nato a Lavariano – Mortegliano – UD il 31 agosto 1908) mi ha donato quando sono nato nel 1942. MADRISOTTI è ancheil cognome che mio figlio e figli suoi portano vivendo in Parigi come Italiani Residenti all’Estero, A.I.R.E. La domanda che da sempre ci facciamo in famiglia è: per quali precedenti storici ci chiamiamo Madrisotti?
Mi risulta che nel Catapanodi Lavariano ci sia una copertura di date che vanno dal 1672 al 1772.

Vi figura anche il nome del Notaio Madrisotti (con Nome presente anche nell’Albero Genealogico del papà ed anche in una storica Targa, esistente fino a qualche anno fa, affissa al muro di ingresso del Portale N°6, della sua Abitazione e Sede del suo Operare. Andando indietro nel tempo una prima data effettivamente registrata sia in Anagrafe Municipale che nei citati Alberi Genealogici si riferisce a Gaspare, nato il 18/10/1795. Lo precede Giuseppe, senza data, ma probabilmente nato verso il 1752).

Dal Catapano risulta, con inizio da una data più vicina a noi:
1742 Gasparo MADRISOTTO è Notaio. [presunta nascita verso 1707, con Ruolo a 35 anni e figlio a 45].
1742 Eredi e nipoti di defunto Pietro MADRISOTTO. Cugini Zuanne e Giacomo MADRISOTTI [forse è una forma al plurale]
1607 [seguono 18 Date, tutte con MADRISOTTO]

Nota: 1596 Esonda il Tagliamento, il Castello di Varmo è distrutto, il Gruppo familiare del Castello si muove verso Sammardenchia (UD) col Cognome “Di Madrisio”, (forse anche “Di Madrisio Castello”) ed è molto probabile che abbia avuto immediato contatto col sotto riportato Gasparo di Madrisio che lavorava già nella Pieve di Lavariano) 1588 Gasparo DI MADRISIO è Cameraro della Pieve [Ruolo di Amministratore].
Questa è la prima Segue nel 1653 un Johannes-Zuanne che sti pula contratti come pubblico notaio anche per i Signori Strassoldo. Ha un figlio Gio Batta che è il padre del notaio Gasparo annotazione del primitivo Cognome scritto nel Catapano. In altri Documenti figura anche “MADRISIO di CASTELLO”, forse per far sapere che non sono Gente di Madrisio Paese].

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Un Pilacorte a Latisana?

Valerio Formentini

Sembrano passate sinora pressoché inosservate le due mensole in pietra finemente scolpite a motivi vegetali, reggenti la “Memoria dell’alluvione”, il pannello commemorativo delle inondazioni del 1965-1966 modellato da Lionello Galasso sul lato sinistro del Duomo di Latisana.

Costituivano un tempo, come illustratodaunacartolinadeglianni Cinquanta, il poggiolo della demolita casa Pasini, posizionata tra le piazze Garibaldi e Indipendenza, elemento che risulterebbe assente in una immagine d’epoca precedente. Se ne potrebbe ipotizzare l’inserimento in un riatto post-bellico dell’edificio con il riutilizzo delle due mensole, di provenienza ignota, forse da un palazzo nobiliare latisanese distrutto dai bombardamenti alleati.

Lo stemma gentilizio che impreziosisce le due parti frontali rimanda alla nobile famiglia veneziana Donato o Donà delle Rose 3 di cui non si ha però notizia quale proprietaria di beni e, soprattutto, di palazzi nella “Terra della Tisana”

Le due mensole presentano le quattro facce fittamente decorate a motivi floreali disposti in complicate girali. In una faccia è presente un uccello che becchetta un fiore, in un’altra si immagina forse un grosso insetto o un volatile.

L’insieme delle raffigurazioni animali e vegetali richiama nettamente lo stile di Giovanni Antonio Pilacorte, scultore o meglio “lapicida” lombardo attivo in Friuli tra il Quattrocento ed il Cinquecento. Gio. Antonio Bassini, conosciuto come “il Pilacorte”, nato nel 1455 a Carona sul lago di Lugano (territorio d’origine di altri lapicidi attivi in Friuli, tra cui il genero Donato Casella e Carlo da Carona), stabilì a Spilimbergo la sua bottega cadiuvato dal figlio Alvise. Moltissime sono le chiese del Friuli che ospitano sue opere recentemente riproposte in un aggiornato catalogo della sua produzione 5 , a cinquant’anni dalla prima ricognizione effettuata da Bergamini nel lontano 1970, e in una mostra curata nel 2021 dalla Società Filologica Friulana.

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Marano nel Parlamento della Patria del Friuli
Dante a Palazzolo

Maria Teresa Corso
Premessa

Nel 554 d.C. per alcuni storici, per altri nel 590 d.C. praticamentesi dette avvio al potere del Patriarcato di Aquileia. Infatti, in quell’anno si tenne a Marano il Sinodo divescovi della regione (o meglio della giurisdizione territoriale comprendente parte della Slovenia, del Veneto), capeggiati dal metropolita di Aquileia, Severo. La riunione e la discussione che presumibilmente si tenne, verteva sulla condanna dei “Tre Capitoli” del Papa Vigilio.

E il vescovo metropolitano aquileiese in quella occasione assunse qui il titolo di Patriarca, confermando ed ottenendo obbedienza da tutte le sedi episcopali della giurisdizione.

Da Marano, dal giorno del Sinodo quindi ebbe origine lo scisma della Chiesa di Roma che durò sino al 698 d.C.

Marano nel 1031 divenne una rocca munitissima e donata al Capitolo stesso di Aquileia dal Patriarca Popone, dopo averla ricevute in dono da Corrado II, imperatore germanico del Sacro Romano Impero. Qualche decennio dopo, il 3 aprile del 1077, ci fu l’investitura feudale della Marca friulana, che venne imposta dall’imperatore Enrico IV al patriarca Sigeardo, successo a Popone.

L’elemento chiave di questa realtà nella storia fu però il Parlamento del Friuli, l’origine del quale risale al 1231 fino all’arrivo della Serenissima di Venezia del 1420, e dopo questo arrivo il Parlamento perse il suo potere.

L’arrivo di Maria Teresa imperatrice d’Austria nel 1751 accentuò lo scioglimento dell’antico Patriarcato ed inseguito con l’arrivo di Napoleone nel 1805 cessò di esistere.

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Luiz Sacilotto (1924-2003)
Ha origini friulane il maestro del Concretismo

Gianni Strasiotto

Luiz Sacilotto era un pittore, scultore e disegnatore di origine friulane, da noi poco noto, mentre in Sudamerica gode tuttora di larga fama.
Nasce a Santo André di San Paolo in Brasile da una famiglia emigrata da Frattina di Pravisdomini da meno di due anni.
Nel1943 si diploma in pittura, decorazione e insegnamento della pittura. L’ampio suo studio di Santo Andrè diviene una scuola d’arte, frequentata da aspiranti artisti di diverse nazionalità Introduce in Brasile l’arte “concreta” un tipo di pittura (concretismo) nato negli anni ‘20 che non rappresenta mai il presente, per cui “le immagini sono se stesse e niente più, concretizzano una certa forma di pensiero, chiaro e sensibile”.
Di lui è stato scritto che: reinventò il vuoto e divenne uno dei miti dell’arte nazionale brasiliana. Dal 1948 al 1958 operò anche in Italia, a Milano, nell’ambito del MAC, Movimento per l’Arte Concreta, cui aderivano noti artisti (l’archivio storico del movimento è conservato nella Civica Galleria d’Arte moderna di Gallarate).
Fu tra i fondatori, nel 1952, del Museo d’Arte Moderna di San Paolo. Le sue opere si trovano nei principali musei, incluso il celebre Guggenheim di New York. Nel corso degli anni espone in tutto il mondo e - in Italia - a Milano, Roma, Biennale di Venezia, ecc.
Il fenomeno Sacilotto è stato studiato non solo da artisti, ma da psicologi, matematici, filosofi: tutti concordano nel riconoscergli rara originalità, logica e poesia. Parlava benissimo il dialetto dei genitori, con cadenze trevigiane, e alcune parole di friulano, ma poco la nostra lingua. Doveva tornare per un breve periodo nel paese d’origine dei suoi genitori poco prima dell’improvvisa dipartita.

Alcuni aspetti sulla sua vita.
Il padre Antonio, uno dei nostri mitici “Ragazzi del ’99”, abitava con la famiglia in località Frattina, al limite dell’allora provincia di Udine, ora di Pordenone. Combatte sul Piave e sul Montello, ma al rientro dalla sanguinosa guerra si trova nella condizione di tanti italiani, privo di lavoro e quindi di prospettive. (I nati nell’ultima decade del ‘900 sono stati i più sfortunati: due caddero in guerra e due furono costretti a emigrare al loro ritorno).
I genitori appartengono a una famiglia di mezzadri e il giovane Antonio decide di attraversare l’oceano, “par catar fortuna”, come si diceva al tempo, approdando a Santo Andrè di San Paolo in Brasile, dove, da poco, erano emigrati gli amici Vezzà di Frattina e i fratelli Luigi e Angelo Cancellier di Quartarezza di Meduna di Livenza, località a poche centinaia di metri dalla casa dei Sacilotto. Trova subito una dignitosa occupazione come selezionatore di carni macellate, data la sua abilità acquisita nella macellazione casalinga dei maiali. Antonio frequenta la famiglia dei fratelli Cancellier, conosce la loro sorella Teresa, di due anni più giovane, e nell’agosto 1923 convolano a nozze.

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I terreni di Volta di Gorgo, nel lascito testamentario della benefattrice Teresa Scala vedova Donati

Enrico Fantin

La gestione finanziaria degli ospedali ha subìto una radicale trasformazione negli anni Cinquanta e Sessanta del secondo dopoguerra. Le piccole istituzioni “aziendali” erano in origine sostenute in parte dagli enti statali e parastatali, in parte dal pagamento diretto dei cittadini ed in parte dal reddito proveniente da attività produttive derivate dall’amministrazione dei beni ricavati attraverso i lasciti dei benefattori, consistenti in: terreni agricoli, case rurali e stalle. Il decollo economico è avvenuto negli anni Sessanta insieme con lo sviluppo della mutualità, che garantiva all’assistito il gratuito ricorso all’assistenza ospedaliera e forniva all’ospedale un’entrata sicura. Si tenga però presente che allora l’ospedale poteva contare esclusivamente sulle proprie risorse anche per interventi straordinari. A parte l’antica fondazione del “Pio Ospedale dei poveri”, avvenuta nel 1574, della patrizia veneta Elena Vendramin e del suo casato, ne fa fede una lapide marmorea posta all’entrata del nosocomio cittadino con incisi i nomi dei benefattori: da Gaspare Luigi Gaspari (1836) al dott. Lorenzo Loredan (1954), ivi compresa la nobildonna Teresa Scala Donati 1 la quale attraverso il suo testamento nominò erede universale l’Ospedale di Latisana: così l’istituzione, che si trovava in ristrettezze finanziarie, poté seguitare a garantire l’attività sanitaria. Or bene l’argomento è stato in parte già trattato nel volume “Storia dell’Ospedale di Latisana” 2 e “La vicenda di un lascito testamentario a favore della comunità di Latisana ancora incompiuto e non onorato alla distanza di oltre mezzo secolo” 3 e questa ricerca vuole mettere in evidenza i terreni agricoli di “Volta di Gorgo”, ubicati a lato di un’ampia ansa a sinistra del Tagliamento, venduti dall’amministrazione ospedaliera, per ampliare la propria struttura. La benefattrice Teresa Scala Donati morì il 30 dicembre 1936 e nel suo testamento olografo, tralasciando il numeroso elenco dei beneficiati, leggiamo:

TESTAMENTO OLOGRAFO DI TERESA SCALA DONATI

Il ricordo costante del mio sempre compianto Consorte oltremodo caritatevole, dà impulso maggiore al sentimento mio per largheggiare in beneficenze, considerando pure che il lievito della sostanza lo debbo alla famiglia Donati; ciò viene pure avvalorato data l’agiatezza di tutti i congiunti, nonché dal convincimento che il lavoro è vita e soddisfazione, mentre la soverchia ricchezza è fomite al vizio. Ciò premesso, per grazia di Dio nella piena lucidità di mente, dispongo della mia sostanza come in appresso.
«Nomino erede l’ospitale di Latisana», il quale raccoglierà la mia successione, coll’obbligo di assumere e pagare subito colla sostanza liquida tutti i legati come in appresso assumendosi pure la tassa di successione a scarico dei beneficati.
... Lascio a miei coloni di Volta Lire 5oo cinquecento per ciascuna delle sei famiglie.
I funerali siano semplicissimi, non si dispensino ritratti, si sopprimino elogi, non torce nella camera ardente, esclusa affluenza di gente alla salma per visite, non fiori, vestito usato, una cuffietta.
La mia salma venga immediatamente imbalsamata. La bara sia portata dai miei coloni.
Latisana 8 Marzo 1935
f. Teresa di fu GioBatta Scala ved. Donati - 8 Marzo 1935.

Dall’inventario dell’eredità della defunta signora Teresa Scala Donati della “R. Pretura del Mandamento di Latisana”, l’ex agente Giovanni Dalla Valle dichiarava che i coloni capifamiglia, dei terreni di Volta, al 31 dicembre 1936, erano sei: Ciprian Angelo fu Luigi, Verzolatto Antonio fu Giuseppe, Verzolatto Giovanni fu Giuseppe, Gobbo Giovanni fu Giuseppe, Gobbo Guglielmo fu Giuseppe, Vignotto Adamo fu Antonio.

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Presentazione libro “Messer Zorzi Ambroster, todesco, habitante a Muzzana”

Roberto Tirelli

Nella serata di venerdì 6 maggio, con la cornice di un numeroso e attento pubblico, si è svolta presso la Sala Parrocchiale di San Vitale martire a Muzzana del Turgnano, la presentazione del libro “Messer Zorzi Ambroster, todesco, habitante a Muzzana. Cronaca di un assassinio sulla Levada di Castions”, del nostro consigliere Renzo Casasola.

L’evento è stato organizzato dai cinquantenni della classe 1972, nell’ambito delle celebrazioni liturgiche del “Perdonut” e dalla locale Pro Loco, mentre il Comune di Muzzana del Turgnano ha concesso il patrocinio alla pubblicazione, edita dalla nostra Associazione Culturale ‘la bassa’.

Con l’autore ha dialogato la ‘coscritta’ sig.ra Michela Nicoletti che ha introdotto la serata salutando i convenuti, le autorità presenti, e portando loro i saluti da parte della classe del ’72 e dal Consiglio Parrocchiale. L’autore presa la parola, e dopo il saluto al pubblico ed alle autorità presenti, ha sottolineato il ruolo decisivo delle associazioni culturali nell’ambito della valorizzazione della cultura locale nelle nostre comunità, in particolare dal ruolo assunto da ‘la bassa’. Il consigliere Casasola porta inoltre i saluti al pubblico da parte del presidente dr. Roberto Tirelli, ben noto a Muzzana, e del Consiglio Direttivo sottolineando la necessità di sostererne le iniziative editoriali.

Nel corso della serata è stato presentato un interessante e inedito filmato realizzato dal muzzanese Marvin Zonch in cui l’autore ed il vicesindaco di Muzzana del Turgnano Massimiliano Paravano hanno descritto e commentato il contesto storico ed urbano della Muzzana di inizio XVII secolo, all’epoca dei fatti narrati nella pubblicazione del Casasola. L’autore, dopo aver esposto al pubblico un sintetico quadro del fatto di cronaca narrato nel suo contributo, si è soffermato sui vari aspetti che caratterizzarono la società feudale friulana dell’epoca, focalizzando in particolare l’attenzione sull’aministrione della giustizia durante il periodo veneziano. A conclusione della serata è seguito un interessante dibattito sul tema trattato tra il pubblico, particolarmente coinvolto, e l’autore.

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Il giro storico de la bassa

Giuliano Bini - Benvenuto Castellarin

Fin dall’infanzia abbiamo assistito con grande ammirazione al passaggio del Giro, il giro ciclistico d’Italia, facendo il tifo con molta passione per i campioni Bartali o Coppi, sbalorditi dalla carovana pubblicitaria, piena di suoni e colori, che spesso distribuiva anche berettini e caramelle. Abbiamo seguito poi le cronache radiofoniche, televisive e quelle dei quotidiani, con ordini di arrivo e classifiche che a volte imparavamo a memoria. Era un mondo fantastico che nella realtà passava in pochi minuti, lasciando però un profondo segno nella memoria.

Volendo finalmente realizzare i sogni della nostra gioventù, abbiamo deciso di organizzare e di partecipare anche noi ad un Giro, in tandem, ma, data l’età, limitandoci ad un territorio meno esteso e sostituendo la bicicletta con dei libri, che permettono di muoversi stando fermi in casa.

Quello proposto è un Giro “storico” nel territorio della Bassa Friulana, dal Corno al Tagliamento, dal margine sud delle risorgive al mare. Con noi, i concorrenti sono i nostri paesi, tutti, grandi e piccoli, che qui, in mancanza di montagne, dovranno scalare la storia, risalire il corso dei secoli, classificandosi secondo l’altezza raggiunta.

Sulla linea di partenza si sono schierati, oltre a noi, ben altri 82 concorrenti, cui furono assegnati i numeri di partecipazione, divisi in squadre comunali, indicate in sigla, con capoluogo e frazioni, come certifica il “Nuovo Dizionario dei Comuni e Frazioni di Comune con le Circoscrizioni amministrative, 27ª edizione, aggiornata al dicembre 1968” 1.

Pur consapevoli di varie successive modifiche, abbiamo adottato la situazione amministrativa più vicina alle nostre conoscenze ed esperienze:

CA - 1) Carlino, 2) Casino, 3) San Gervasio.
LA - 4) Latisana, 5) Bevazzana, 6) Gorgo/Pussiano, 7) Latisanotta, 8) Masatto, 9) Pertegada, 10) Picchi 11) Volta.
LI - 12) Lignano Sabbiadoro, 13) Lignano Pineta.
MA - 14) Marano Lagunare.
MU - 15) Muzzana del Turgnano, 16) Casali Franceschinis.
PA - 17) Palazzolo dello Stella, 18) Modeano, 19) Piancada.
PO - 20) Pocenia, 21) Paradiso, 22) Roveredo, 23) Torsa.
PP - 24) Porpetto, 25) Castello, 26) Corgnolo, 27) Pampaluna.
PR - 28) Precenicco, 29) Pescarola, 30) Titiano.
RI - 31) Rivignano, 32) Ariis, 33) Flambruzzo, 34) Sella, 35) Sivigliano.
RO - 36) Ronchis, 37) Fraforeano.
SG - 38) San Giorgio di Nogaro, 39) Chiarisacco, 40) Porto Nogaro, 41) Villanova, 42) Zellina.
TE - 43) Teor, 44) Campomolle, 45) Chiarmacis, 46) Driolassa, 47) Rivarotta.
VA - 48) Varmo, 49) Belgrado, 50) Canussio, 51) Cornazzai, 52) Gradiscutta,
53) Madrisio, 54) Romans, 55) Roveredo, 56) Santa Marizza.

A questi si sono aggiunti alcuni paesi che, pur avendo partecipato alla formazione dei comuni moderni nel periodo Napoleonico o Austriaco, poi non hanno avuto il riconoscimento formale dello Stato Italiano, non essendo diventati né comuni censuari né frazioni. Anch’essi però hanno partecipato alla corsa, come tanti ciclisti d’un tempo, diremo da indipendenti, seppure noi li indichiamo con la sigla della squadra del comune attuale d’appartenenza: 57) Foredana (PP), 58) Leonischis (RO), 59) Marianis (PA), 60) Rivalta (PO), 61) Santa Marizzutta (VA), 62) Villafredda (CA), 63) Voltuzza (LA), 64) Zuccola (SG). Anche altre ville hanno partecipato al Giro, pur non apparendo neppure nelle riforme napoleoniche, quelle che in altra occasione abbiamo definito “paesi fantasma” e che ora potremmo indicare come concorrenti ombra, in ombra nell’ultimo tratto del nostro Giro: 65) Bioni/ Sant’Andrea (MA), 66) Bronzan (PA), 67) Carpenara (PR), 68) Castellutto (RI), 69) Clinea (PA), 70) Falt (RI), 71) Floravalle (VA), 72) Guardazojosa (VA), 73) Gluvidrago (RI), 74) Isernico (RI), 75) Maranutto (CA), 76) Merdarolio (RI), 77) Petrons (RO), 78) Turgnano (PA), 79) Varmidello (VA), 80) Vendoglio (VA), 81) Villotta (PA), 82) Volta (RO). E’ stato concesso inoltre al paese di Gorgo, nel comune di Latisana, di partecipare anche con il suo antico nome di Pussiano.

Ecco le squadre al completo:

CARLINO:
1) Carlino, 2) Casino, 3) Maranutto, 4) San Gervasio, 5) Villafredda,
LATISANA:
6) Latisana, 7) Bevazzana, 8) Gorgo/Pussiano, 9) Latisanotta, 10) Masatto, 11) Pertegada, 12) Picchi 13) Volta, 14) Voltuzza.
LIGNANO SABBIADORO:
15) Lignano, 16) Lignano Pineta.
MARANO LAGUNARE:
17) Marano, 18) Bioni/Sant’Andrea.111
MUZZANA DEL TURGNANO:
19) Muzzana, 20) Casali Franceschinis.
PALAZZOLO DELLO STELLA:
21) Palazzolo, 22) Bronzan, 23) Clinea, 24) Modeano, 25) Piancada, 26) Marianis, 27) Turgnano, 28) Villotta.
POCENIA:
29) Pocenia, 30) Paradiso, 31) Rivalta, 32) Roveredo, 33) Torsa.
PORPETTO:
34) Porpetto, 35) Castello, 36) Corgnolo, 37) Foredana, 38) Pampaluna.
PRECENICCO:
39) Precenicco, 40) Pescarola, 41) Titiano, 42) Carpenara.
RIVIGNANO:
43) Rivignano, 44) Ariis, 45) Castellutto, 46) Falt, 47) Flambruzzo, 48) Gluvidrago, 49) Isernico, 50) Merdarolio, 51) Sella, 52) Sivigliano.
RONCHIS:
53) Ronchis, 54) Fraforeano, 55) Leonischis, 56) Petrons, 57) Volta.
SAN GIORGIO DI NOGARO:
58) San Giorgio, 59) Chiarisacco, 60) Porto Nogaro, 61) Villanova, 62) Zellina, 63) Zuccola.
TEOR:
64) Teor, 65) Campomolle, 66) Chiarmacis, 67) Driolassa, 68) Rivarotta.
VARMO:
69) Varmo, 70) Belgrado, 71) Canussio, 72) Cornazzai, 73) Floravalle, 74) Gradiscutta, 75) Guardazojosa, 76) Madrisio, 77) Romans, 78) Roveredo, 79) Santa Marizza. 80) Santa Marizzutta, 81) Varmidello, 82) Vendoglio.

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Dalle acque del fiume Stella riaffiora la punta di un giavellotto

Valerio Formentini

I risultati della decima campagna di scavi dell’ateneo udinese nella Bassa friulana. Capulli: «Anno dopo anno, raccogliamo elementi e riscriviamo la storia dell’area»

03 Gennaio 2022
Un nuovo reperto (una punta di giavellotto dell’età del bronzo, in discreto stato di conservazione, che la corrente deve verosimilmente aver trasportato da un sito a monte) e l’ipotesi che il ponte romano sullo Stella, costruito lungo la via Annia, in quel punto più stretto del fiume fosse a due archi.

Sono i risultati della decima campagna di archeologia subacquea nel fiume Stella, guidata dall’Università di Udine nell’ambito del progetto “Anaxum – Archeologia e storia di un paesaggio fluviale” realizzato con la Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio del Friuli Venezia Giulia in concessione del Ministero della Cultura.

La campagna, avviata nel 2011 e che ha portato a importanti scoperte, è concentrata nel comune di Palazzolo dello Stella e ha riguardato i resti del ponte della antica via Annia (II secolo d. C.). «Le indagini – precisa in una nota Massimo Capulli, direttore delle campagne subacquee e coordinatore del progetto Anaxum – hanno permesso di comprendere meglio la natura del deposito archeologico del tratto di fiume in cui si trovano i resti del ponte della via Annia attraverso il rilievo batimetrico e il rilievo tridimensionale dei resti stessi. Anno dopo anno la ricerca del progetto Anaxum, seppur molto impegnativa, raccoglie risultati che consentono di scrivere pagine importanti per la storia del territorio friulano e di contribuire, più in generale, alla conoscenza dell’alto Adriatico antico».

Protagonisti delle ricerche sul fiume Stella sono gli archeologi subacquei dell’ateneo udinese, che utilizzano il corso d’acqua della Bassa friulana come una sorta di laboratorio di formazione.

La campagna 2021 è stata infatti condotta da un team multidisciplinare di la bassa/84 - 2022 120 ricercatori con la collaborazione attiva degli studenti dell’Università di Udine.

Un esempio unico in Italia. «Le campagne sullo Stella del progetto Anaxum – sottolinea Capulli – sono l’unico scavo archeologico didattico in ambiente fluviale a livello nazionale e internazionale».

Al carattere scientifico della campagna si unisce così anche la dimensione didattica. «Partecipando allo scavo archeologico in un fiume – spiega Capulli, docente di metodologia della ricerca archeologica – i giovani possono migliorare le proprie abilità acquatiche e fare esperienza nell’utilizzo degli strumenti da scavo subacqueo».

La campagna sullo Stella ha portato alla scoperta di oltre 400 reperti di epoca romana: anfore, tegole, ma anche ceramiche pregiate e monete: il carico di un’imbarcazione romana (Stella 1) il cui relitto giace nel letto del fiume.

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Itinerari turistici tilaventini nella bassa friulana

A cura della redazione

Nel 2021 l’Associazione “la bassa” ha presentato domanda alla Regione Friuli Venezia Giulia – assessorato al turismo - per il finanziamento di un progetto di promozione turistica finalizzato a valorizzare il territorio lungo il fiume Tagliamento nel tratto che va dal ponte della Delizia alla foce. Il progetto si propone di sviluppare i contenuti di dieci itinerari turistici che abbiano come obiettivo la conoscenza dell’ambiente naturale, la conoscenza storica ed artistica dei luoghi, l ’attività ludica e sportiva, la promozione dei prodotti locali sia enogastronomici che artigianali.

Il progetto è stato elaborato sulla base di uno studio approfondito affidato ad una ditta specializzata che ha individuato le varie fasi per la sua attuazione in una positiva collaborazione con le istituzioni locali, in primis i Comuni, le pro loco, le associazioni cultura, le organizzazioni economiche.

La fase progettuale oltre al necessario sviluppo teorico affidato allo studio specialistico sviluppa solo alcune parti in relazione al contributo ricevuto. Sperimentalmente sono stati individuati i dieci itinerari e fra questi si è realizzata una sola guida completa (collegamento Tagliamento – Stella tramite il territorio di Palazzolo dello Stella.

La progettazione realizzata da “la bassa” verrà poi messa a disposizione di quanti nel settore pubblico e privato dovranno operare in questo territorio ed avviarvi attività economiche in grado di costituire una valida offerta turistica per gli anni a venire.

Infatti il progetto è in forma di divenire perché presuppone per la sua realizzazione investimenti massicci in risorse umane e finanziarie. L’attivazione del progetto potrà essere occasione per un parziale riordino paesaggistico, per la manutenzione ed apertura di luoghi storico artistici, nonché per il recupero di beni danneggiati o trascurati.

Il presupposto dello sviluppo turistico porta con sé la necessità della realizzazione o del sensibile miglioramento delle infrastrutture dedicate, maggiori facilitazioni per i trasporti, creazione di interazioni motivate dai cambiamenti in fatto di turismo sia esso singolo, di gruppo o familiare. Sul territorio verranno predisposti dei sussidi tecnico-pratici e di comunicazione e per questo è quanto mai utile far conoscere le opportunità che offre il territorio oggetto della attività progettuale per creare domanda soprattutto sulla scoperta di

I progetti sono:
“ERMES” è incentrato sulla figura di Ermes di Colloredo con luogo di riferimento la volla di Gorizzo. Si tratta di un itinerario letterario che va a scoprire le liriche del poteta del XVII secolo, ma anche il patrimonio culturale costituito dai contributi di poeti e prosatori anche contemporanei.
“IPPOLITO” anche questa proposta riguarda memorie letterarie, in particolare Ipoolito Nievo nei luoghi evocati dal castello di Fratta al Varmo. Dà occasione anche per aprire la pagina storica del Risorgimento in questa zona.
“SU PER PALAZZOLO” è un itinerario che lega i due principali fiumi della Bassa friulana occidentale: il Tagliamento e lo Stella con dovizia di aneddoti e curiosità che si aprono con un ampio ventaglio storico dai primordi sino all’età cintemporanea.
“SETTE CASTELLI” è la Belgrado del Medioevo con i manieri lungo il Tagliamento ed i loro nomi misteriosi come Muchenberg o Zojosa, travolti dal fiume e distrutti. Si va alla ricerca dei personaggi e dei misteri che li riguardano.
“ROSA E REDEGONDA” è il percorso chepiù volte attraversa il fiune da Madrisio a san Paolo da qui di nuovo sulla sinistra del fiume e poi a Rosa e Madonna di Rosa (Casarsa) in un fitto interscambio di conoscenze e curiosità sino a giungere alle rose di Cordovado.
“SANTE SABIDE” con la guida dell’ opera di ricerca di Benvenuto Castellarin andiamo alla scoperta del territorio del Comune di Ronchis partendo da Fraforeano per raggiungere il fiume. La chiesetta di Sante Sabide è il luogo di riferimento di questo percorso del tutto inedito nei misteri del primo cristianesimo.
“APICILIA” il nome antico forse non corrisponde all’antica Latisana, ma certo ad una vicinissima località sulla via Annia. In questo itinerario prevale la scoperta archeologica che rivela le attività umane del passato.
“MARINE” il mare e le lagune, nonchè la foce del fiume sono la meta di questo itinerario da percorrere con una imbarcazione tipica dei luoghi per raggiungere poi Marano.
“SANTA MARIA DEL MARE” la chiesetta che da Bevazzana ha “traslocato” nella pineta di Lignano è il punto di arrivo di questo itinerario che attraversa le spiagge e la pineta stessa per collegarsi anche con la ricca dotazione culturale di Luignano che va da Hemingway a Scerbanenco a Marcello D’Olivo.
“PINEDA” il primo insediamento della penisola lignanese ci porta a conoscere lo sviluppo storico turistico del maggior polo esperienziale di accoglienza alla vacanza ed al tempo libero.

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A proposito di eroi

Giuliano Bini

Per nostra fortuna, la parola eroe, che abbiamo appreso da greci e latini, ὴ ρωας h ḗ rõs, ha un’etimologia incerta. Ha anche significati molto diversi, spaziando fra figli di dei, dotati di virtù eccezionali; uomini particolarmente illustri specialmente per valore guerriero; personaggi principali in opere d’arte di grande valore; chi primeggia da protagonista in varie manifestazioni e molto altro ancora. La definizione che maggiormente mi ha convinto però è la seguente: “Chi sa lottare con eccezionale coraggio e generosità, fino al cosciente sacrificio di sé, per una ragione o un ideale ritenuti validi e giusti” . Molto bene, lottare e sacrificarsi per ”una ragione o un ideale ritenuti validi e giusti”, ma ritenuti ... da chi?

Forse per l’imbarazzo di dover valutare una scelta “valida e giusta”, altri hanno inteso far derivare il termine eroe da eros, amore, ερωτας, amor, che oltre ad essere il figlio di Afrodite, è la condizione di chi esprime un profondo sentimento verso qualcuno, certamente anche quella di sentire e di mostrare una profonda attrazione affettiva e sessuale. Ma oltre a queste buone e belle definizioni e tante altre che crediamo di conoscere, la psicanalisi nel nostro inconscio indica con eros la libido, che non è solo il desiderio sessuale, ma anche un più generico “insieme degli istinti di conservazione”, cioè la base della vita ma anche dell’egoismo, che sembra contraddire apertamente sentimenti d’amore e dare un’altra spiegazione alla definizione citata.

Pertanto si può essere eroi in tanti modi, e lottare per ragioni ed i deali ritenuti “validi e giusti”... anche solo dal mio Io, da Me, ovviamente da ognuno di Noi.
Eroi della Patria fascista Anche per definire delle persone “eroi della Patria fascista” 3 bisogna riconoscere che esse hanno lottato “per una ragione o un ideale ritenuti validi e giusti”. Che lo abbiano detto e scritto i fascisti nel “Ventennio” nulla da obiettare, e che uno storico attualmente lo abbia riportato e citato fa parte della sua diligente documentazione.

Se però nell’anno 2021, XCIX ancora per qualcuno, il titolo di un paragrafo è “Gli eroi della Patria”, omettendo l’aggettivazione fascista, è da sperare solo in un banale errore di stampa, se poi di un eroe si scrive: “appena diciottenne era entrato nelle file del fascismo ed aveva militato fra gli squadristi della “Canciani” di Casarsa ”, poichè fu “Volontario in Spagna per la difesa della causa fascista”, quello per me, e spero per tanti, non è un eroe e quella non è la nostra Patria.
La Storia ha già fatto sentenza sugli effetti della “causa fascista” sull’umanità, giudicati ovunque nefasti, e che hanno particolarmente ferito la nostra Patria, dove purtroppo il fascismo è nato e dove nel 1922 ha preso il potere con un colpo di Stato, cui partecipò un altro degli eroi citati: “partecipando, come squadrista alla Marcia su Roma”.

Altre notizie vengono riportate “A testimoniare il perfetto allineamento al regime fascista di Casarsa”, che saranno la registrazione di una realtà dei tempi che fu un fenomeno abbastanza comune nei nostri paesi. Prescindendo dal “perfetto”, potrei dire abbia riguardato anche il mio paese, Palazzolo. Particolarmente la conquista dell’Impero, e l’attribuzione “eroica” dell’impresa, estesero il già ampio consenso popolare al Regime Fascista e accrebbero maggiormente, negli allora responsabili dello Stato, il senso di presunzione ed arroganza che produsse gli effetti disastrosi che tutti conosciamo.

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Ramuscello, la sua Villa Attimis - Freschi e un mondo di Mezzadri e Fittavoli

Carmela De Caro

Ramuscello prende il nome da un piccolo ramo del Tagliamento che scorreva nel tratto che dall’antica strada romana “Alemana Concordiense” terminava a Cordovado, parte gettandosi nel Lemene e parte nel Tagliamento Maior. Il villaggio “Ramoselo” è ricordato nell’atto di donazione fatto dai 3 fratelli longobardi all’Abbazia di Sesto nel 762. I tre figli di Piltrude e di Pietro, duca del Friuli: Erfo, Anto, Marco, fanno donazione al monastero di Sesto in Silvis “et trans fluvius Taliamento casas in Ramoselo cum omni pertinentia sua”. (Liruti,“Storia del Friuli” e R. della Torre “l’Abbazia di Sesto in Silvis” riportano diffusamente l’atto di donazione nel tempo in cui era abate un certo Silvestro. Il documento stilato in 4 copie benefica l’abbazia maschile di Sesto, ma anche il monastero femminile di Salto in cui era monaca la madre dei donatori). Successivamente, l’imperatore Lotario conferma i beni in “Aramoselo cum corte et oratorio”. L’oratorio di cui si parla è una chiesetta dedicata a santa Anastasia (se ne trova ampia testimonianza nel testo di Degani, Ernesto “L’Abbazia benedettina di S. Maria di Sesto in Silvis nella patria del Friuli” Venezia (1908) Papa Lucio III da Velletri, con la bolla 13 dicembre 1183 prende sotto la protezione della Santa Sede l’abate di Sesto e i suoi possessi in Bagnarola con oratorio in Ramosello con corte et oratorio e le bolle papali del 1182 e del 1186, destinate all’Abbazia di Sesto, riportano che Ramuscello era già un piccolo borgo con la propria chiesetta dipendente dalla giurisdizione della pieve di Bagnarola. In particolare, il vescovo di Concordia, Gionata, ottiene da Urbano III, eletto papa nel 1185, a Verona, il decreto con le pievi a lui soggette tra cui la plebe di Bagnarola “cum suis cappellis: S. Pietro di Versola e Santa Anastasia”.

Anche a Ramuscello vi è un ospizio eretto dagli abitanti di Sesto; questo subisce molteplici cambiamenti lungo i secoli fino al punto che il refettorio è trasformato in stalla (si vedevano pitture sino a qualche decennio fa lungo una parete: un sacerdote con un calice e San Valentino, la Madonna col Bambino ed altre due figure di santi.., Ad oggi, pare che le pitture siano state rimosse e sistemate sulle pareti della sala centrale del palazzo Freschi). Anche Berengario I conferma all’abate Adalberto i beni dell’abbazia e nomina i 20 castelli tra cui “Ramosello con tutte le sue pertinenze” (Liruti “Storia del Friuli”). Lo stesso autore riferisce che l’abate di Sesto aveva alla sua corte, vassalli e feudatari tra cui i signori di Attimis che avevano in feudo il castello di Gruaro con molti masi e la Villa di Ramoselo.

In breve la storia di Ramuscello risale al 3 maggio 762 d. C. sotto la dominazione longobarda; lo sappiamo, quel giorno 3 fratelli donarono all’abbazia di Sesto una parte del loro patrimonio. Nell’atto di donazione compare per la prima volta la citazione della località di Ramuscello: “et fluivio Tiliamento, casa in Ramusello cum omnia pertinentia...

Quindi si parla di una casa in Ramuscello situata sulla sponda sinistra del fiume “Tagliamento Maior” oggi scomparso, forse abitata da persone addette al controllo dei guadi che attraversavano i due rami del grande fiume friulano. Nei secoli che seguirono altri documenti nomineranno questa località: il Diploma di Berengario I del 3 gennaio 888, il “Trattato di Ramuscello” tra il patriarca di Aquileia, Pellegrino, e il conte di Gorizia, Engelberto, firmato il 22 aprile 1150 allo scopo di far desistere quest’ultimo dalle angherie e dai saccheggi nel territorio patriarcale, presenti vescovi, principi e nobili ed il conte di Gorizia.

(“Il 30 aprile 1150 questa sentenza si pubblicò e si scrisse appresso la selva di Ramosello l’anno 1150” Liruti vol. IV, pag. 103-105”). Ogni qualvolta necessitava un’adunanza, il posto centrale ed il più accessibile a tutti era Ramuscello.

Giungiamo al 10/3/1498 quando il gastaldo di Sesto dava licenza al P. Stefano di Mantova di poter erigere una “colonna” presso la campagna di Ramuscello dove si era principiata l’edificazione di un piccolo monastero (Madonna di Campagna) per la rappresentazione, il 25 marzo dell’anno, dell’Annunciazione di Maria e, nel venerdì successivo, venerdì santo, della passione di Cristo.

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Isabella Vendramin: l’ultima bella castellana del Feudo della Tisana

Enrico Fantin

Dopo quasi due secoli di incontrastato possesso della Terra della Tisana da parte dei Vendramin, con l’acquisto del 12 ottobre 1457 da parte di Andrea Vendramin, futuro doge (1476-1478) per l’importo di 6.000 ducati dai fratelli Daniele e Bartolomeo Malombra, il Feudo venne smembrato e suddiviso a causa dell’estinzione dei “masculi” Vendramin e delle successive famiglie subentrate per eredità.

Il Feudo di Latisana venne diviso in tre parti e l’atto fu rogato nel salone del palazzo di Andrea Vendramin a Latisana, il 5 giugno 1528, dal notaio Giovanni Battista Dalla Santa, prete di San Vidal (Venezia) e notaio imperiale, alla presenza anche del notaio imperiale nonché cancelliere di Latisana, Camillo Bardellino. L’assegnazione avvenne tramite sorteggio (a butar le tessere) alla presenza del capitano di Latisana Baldo Bolognino.

A Zaccaria toccò la prima parte del territorio, detta di Porto Latisana, estesa sulla sinistra del Tagliamento; ad Andrea toccò la seconda parte del territorio, detta di Cesarolo, estesa fino al mare sulla destra del Tagliamento; a Nicolò toccò la terza parte, detta di Villanova, ed estesa sulla destra del Tagliamento.
Nella divisione famigliare Zaccaria rimase senza eredi maschi a causa della morte (11 agosto 1563) di Zuanne, unico figlio maschio e premorto senza eredi, sul quale aveva investito ogni speranza.

Dal testamento de f. Zaccaria Vendramin 2 dicembre 1563:

Io Zaccaria Vendramin Procurator, che fu de mis. Zaccaria sano per la Divina Grazia della Mente, e dell’Inteletto, benché giusto il solito indisposto del Corpo intendo per questo mio ultimo Testamento ordinar, e disponer di tutta la mia Facoltà &c.
Item lasso mia universal Erede, e ressiduaria, e sola Commissaria de tutti li miei Beni sì Mobili, come Stabili caduchi, e non caduchi a me aspettanti sì adesso, come in avvenir la mia obedientissima Figliola Madonna Elena, di quelli che in Vita, e in Morte la possi disponer a suo beneplacito, eccetto che della mia porzion della nostra Giurisdizion de Latisana, della qual è delli miei Dazj tutti voglio che in vita sua solamente la sii Padrona, e libera Usufruttuaria, e dopo la sua Morte voglio, che ditta Giurisdizion, e Dazj immediate pervenga ai miei Nipoti da Cà Vendramin Fioli, che furono delli quondam miei Onorandi Fratelli missier Andrea e mis. Nicolò, e successivamente nelli suoi Discendenti Mascoli, né mai vada fora della Linea Mascolina originata della felice memoria del quondam nostro Avo missier Bortolo Vendramin, che fu del Serenissimo Prencipe, la qual Linea mancando, che Iddio non el permetta, in tal caso voglio, che pervenga nelli Discendenti Mascoli se ne faranno, e poi Femine di mia Madonna Chiara Moro, e non altramente, voglio per conservazion della mia Giurisdizion, che mai non possino esser smembrati, né trasferidi sotto alcun pretesto fuori della Terra di Tisana, cioè Porto de Latisana a me toccado, & manco si possa vender, alienar ditti Dazj, & Giurisdizion & c.

Nel corso del secolo successivo anche i Vendramin dovettero rinunciare alla velleità di mantenere il patrimonio beneficiale in capo alla sola linea mascolina della famiglia, e cominciarono quindi ad approfittare della sostanziale indifferenza delle magistrature veneziane rispetto al regime giuridico dei beni feudali, e più in particolare alle problematiche relative al traffico giuridico delle regalie. Il 21 maggio del 1644 furono sottoscritti gli sponsalia fra i Vendramin e i Contarini relativi al matrimonio d’Isabella Vendramin, figlia di Bartolomeo, con Giacomo Contarini, figlio di Imperiale. Un’ampia sezione degli accordi riguardava la dote, comprensiva di tutti i beni come pure delle regalie pertinenti a Latisana, elencate in modo analitico, con annotazione del valore economico delle singole voci; il tutto ridotto al relativo “prezzo” in lire e ducati. Anche la quota giurisdizionale di Isabella Vendramin fu liberamente assegnata in dote, e quantificata in 8 carati. Non è ben chiaro in quale momento la giurisdizione sul feudo fosse stata divisa in 24 quote ideali, dette appunto carati, e ripartite fra i consorti feudali anche in frazioni di carato. E neppure sono sufficientemente chiare le modalità attraverso le quali si sia arrivati a questa divisione in quote ideali né, a dire il vero, il significato da attribuire a tale termine. Per fare un poco di chiarezza sul punto è necessario tuttavia por mente alle parole di Alvise Mocenigo quando nel 1806, nel dichiarare alla Commissione per la revisione delle notifiche feudali di possedere una giurisdizione feudale a Latisana, affermò anche di detenerne 4 carati sui 24 complessivi, in quanto discendente di Bianca Vendramin, e altri 4 acquistati all’incanto dalla sua famiglia dopo l’estinzione della famiglia Contarini. Il feudo di Latisana fu nuovamente messo all’asta nel 1723. Questa vendita non è, però, da ritenersi conseguenza di un altro fallimento dei feudatari che ne erano titolari, quanto piuttosto quale esito obbligato della devoluzione allo Stato del patrimonio feudale della famiglia Contarini a seguito della morte di Alessandro Contarini, ultimo erede di Isabella Vendramin. I Contarini tuttavia non erano gli unici titolari del feudo di Latisana, giacché detenevano soltanto un terzo del complesso dei diritti e dei beni contenuti nel distretto. L’estinzione della famiglia, e la conseguente devoluzione del suo patrimonio, misero così i Mocenigo nella condizione di accaparrarsi una quota più ampia dell’intero distretto feudale rispetto a quella già detenuta in consorzio con una decina di altre famiglie veneziane e friulane. La famiglia Vendramin, in ogni caso, aveva lasciato un segno tangibile della sua presenza nel feudo di Latisana anche attraverso beneficenze, lasciti testamentari ed altre iniziative. Bartolomeo Vendramin, cavaliere melitense, fu sepolto a Venezia nella chiesa di Santa Maria dei Servi. La sua pietra tombale recita: “BARTH[olomeus] VENDRAM[enus] AND[reae] DUCIS F[ilius] LATISANAE DOMINO”. Egli fece affrescare la chiesa di Santa Maria di Bevazzana, ora traslata a Lignano. Il figlio Zaccaria chiamò gli Eremitani agostiniani a Bevazzana e Latisana. Il nipote Andrea promosse il rifacimento del duomo di Latisana, mentre il fratello di quest’ultimo, Zaccaria, fece costruire la chiesa di San Zaccaria in Pineda di Lignano. E non vanno nemmeno dimenticate le figlie, Elena e Chiara, promotrici del Pio ospedale dei poveri in Latisana. I Vendramin furono sepolti in due arche site vicino al portale del Duomo di Latisana, come e per espressa volontà testamentaria di Elena Vendramin, compatrona di Latisana.

L’arte di Toni (Antonio Ligabue)

Fabrizio Azzali

Un uomo usci dal pioppeto per vedere il giorno. Si era riparato dalla canicola estiva con impacciata ferocia ed era affamato. Gli mancava tutto e indossava gli stessi stracci da molto tempo. Parlò da solo perché gli spasmi della solitudine pesavano come il capanno dismesso che stava nella golena in mezzo al bosco, lontano dalla carità e da quei pochi compaesani che provavano pietà per lui.

Quello che riceveva non sarebbe mai stato abbastanza e il malessere patito sulle proprie carni lo mitigava lungo gli argini del Po. Si fermò in silenzio per ascoltare il crocchio placido del fiume, poi tirò diritto senza esitazioni. Neanche un timido bivio di fronte allo specchio d’acqua che si allargava sotto le scarpe, vicino ai rami secchi imbrigliati nelle sterpaglie. Scorse le tracce leggere e sfumate di una lepre che si perdevano nel guado. Sudò e maledì il sole che era testimone della sua angoscia. Camminò lungo l’argine creato dall’uomo e poi avanzò cautamente sulla sponda, sui fragili ciuffi d’erba perché non capì dove finivano laddove cominciava il resto. Pronunciò delle parole a cui non c’era rimedio e si mosse per superare il molle tappeto di foglie nel modo più elementare possibile, assecondando il lento ritmo della vita naturale.

Il fiume cullava le sponde melmose, come le suole delle sue scarpe incagliate nel fango. Seguì il corso d’acqua per un centinaio di metri, percorrendo tutte le svolte lungo le piste che lui stesso aveva tracciato, poi tornò indietro. Quando ripassò davanti al tronco si guardò intorno e per un momento nella rada boscaglia agitò le braccia freneticamente. Mugolò dei rimproveri selvaggi e incoerenti contro sé stesso.

Non parlare più, non parlare più. Chi sta parlando con la mia voce? Adesso ti trovo. Urlò. Sollevò il capo e frugò qua e là per ritrovare la sua scheggia d’osso appuntita come uno stiletto. Poi la mano la strinse, ma non smise di imprecare quando si accomodò sul posto per cavare un panetto di fango rappreso vicino alla riva.

Di lui dicevano che dopo l’adozione non era più stato a posto con la testa. Nient’altro che un figlio cresciuto nel degrado familiare che lo aveva segnato per sempre. Gli restava solo il dolore che si cementava sulle altre tribolazioni come una maledizione. L’emarginazione lo consumava più di quanto ne poteva sopportare insieme al talento, mai concesso prima a un disperato come lui. Ogni volta che bramava l’amore veniva ripudiato, perché il suo aspetto lo poneva sempre più in basso del peccato. Sapeva di non avere molte speranze e quanto fosse ampio lo spazio della sua natura sulle passioni. Cercò di farsi un’idea della felicità, ma quando si immergeva nei cattivi pensieri gli ribolliva il sangue nelle vene.

Si era isolato per limitare i suoi incontri con gli altri per cui se non avesse seguito le misure disciplinari dei paesani, si sarebbe messo nei guai o peggio, ritornava in manicomio. Inoltre, essendo sgraziato, la gente lo apostrofava come voleva. Lo guardavano con sordo disprezzo, diffidenza e paura, ma soprattutto lo evitavano. Per loro era il matto del paese che mendicava un conforto da una cascina all’altra, come un cane randagio. Barattava i dipinti con una bonaria incuria di sé stesso, e per quanto si desse da fare, non gli riusciva di condividere le dinamiche sociali di quel mondo contadino, povero e ignorante.

Faceva altre cose e si abbandonava alle miserabili riflessioni per raccogliere le sue pene nelle sculture o nei dipinti cavillandoli di particolari con intima soddisfazione, come se fossero delle mappe. Solo con il piacere assoluto della pittura resisteva ad ogni tipo di male, dimenticava per un attimo i torti e le cattiverie con tutto ciò che di nobile e divino poteva immaginare nel suo mondo di valori. La varietà dei soggetti era stupefacente, se si fosse scorso l’elenco si sarebbe capito dal tenore delle gamme cromatiche quali fossero gli stati d’animo. Celebrava la propria anima con uno stile spontaneo e immediato, una danza cognitiva che andava dalla cascata di autoritratti immersi nella sfolgorante natura, fino all’ardore della campagna idilliaca o della giungla selvaggia fatta di insidie e pericoli. Niente di più facile per inserire le belve e gli uomini esecrabili nella stessa categoria.

Affondò il naso scorticato nel panetto di fango e quando attraversò l’ansa sabbiosa, lo fiutò e ci soffiò sopra. Il sudore gli rigò la fronte, ma non si affrettò. In giro non c’era nessuno. Solo un nugolo di moscerini che si agitò nella sua impettita traiettoria tra i cespugli e le frasche secche, lontano dagli occhi comuni. Superò l’erba alta a passi lunghi e misurati, guardando dritto avanti a sé fino al capanno, dove si sedette accanto al tavolaccio, sopra le assi incurvate che foderavano il pavimento e i buchi tappati in qualche modo con dei barattoli di latta. A portata di mano c’erano degli oggetti e vecchi giornali raccolti in paese, sporchi di terra. Non c’era un ordine preciso per le cose, anche perché aveva confidenza con la sporcizia che regnava sovrana in ogni pertugio. Era sospettoso, ma vide che tutto era rimasto come se l’aspettava. I colori e i quadri erano al loro posto insieme al suo Eden africano di terrecotte. In fondo, stava nella terra di nessuno dove profanava la zona d’ombra con i suoi turbamenti e le sue manie. Ci stava solo lui, con la rabbia della bestia cresciuta nella miseria fin dalla più tenera età.

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