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copertina numero 80 la bassa

la bassa/80

anno XLII, n. 80, giugno 2020

Estratti di
articoli e saggi
della nostra rivista

In copertina:
Particolare della carta
Fori Iulii accurata descriptio
dal “Theatrum Orbis Terarum” di Abraham Ortelius (1527 - 1598)
Anversa 1573.
Papa Francesco mentre prega davanti al crocifisso ritenuto miracoloso nell’emergenza coronavirus.

Sommario

  • ROBERTO TIRELLI
    Editoriale
    Un virus che fa storia
  • ENRICO FANTIN
    Il giorno del ricordo
    Una mesta pagina di storia nella testimonianza di Giuseppe Comand, ultimo testimone dell’orrore delle foibe
  • ROBERTO TIRELLI
    Nomi propri del XVIII secolo nel contado di Belgrado
  • BENVENUTO CASTELLARIN
    Dissidi e violenze a causa di terreni comunali promiscui di Latisana - Precenicco e Driolassa, Palazzolo e Rivarotta
  • RENZO CASASOLA
    Domini de Colloreto, et Ragonea capud ponunt in villa Muzana. L’amministrazione della giustizia a Muzzana nel XIV secolo
  • LORENA ZUCCOLO
    La SNIA Viscosa e il mito della bonifica: propaganda e fake news degli anni Trenta
  • BRUNO ROSSETTO DORIA
    Pescaor con i guanti
  • MAURO FASAN
    Giussago e Lugugnana, due casi di stregoneria nel 1675
  • VITTORIA PIZZOLITTO
    Dall’Epistolario di Ippolito Nievo: lettere a Fausto Bonò di Portogruaro
  • ENRICO FANTIN
    Il tunnel segreto che decise le sorti di Caporetto
  • CARMELA DE CARO
    La Madonna della Misericordia e la storia di Spinetta Melchisadecco Agostino
  • GIORGIO MILOCCO
    Tra i seicento friulani “optanti” diciannove profili
  • NELLO GOBBATO
    La coltivazione del riso a San Michele al Tagliamento
  • ROBERTO TIRELLI
    La rivolta dei “Rustici” di Muzzana contro il patriarca
  • GIANNI STRASIOTTO
    Praturlon: I copa el zingheno col baston

EDITORIALE
Un virus che fa storia

ROBERTO TIRELLI

Per noi che, generalmente, cerchiamo di dimenticare il passato, specie quello più brutto, i fattori della storia sono nella umanità, o, se credenti, nelle mani di Dio, se non credenti nel caso o in altre cause comunque sempre verificabili. Nelle lunghe settimane in cui abbiamo lottato contro il coronavirus, chiudendoci in casa, tagliando il filo con tutte le rassicuranti abitudini quotidiane, ci siamo accorti dell’irrompere della natura a sconvolgere la nostra civiltà tecnologica e piena di certezze.

E questo forse perché non abbiamo studiato abbastanza la storia, anche quella relativamente recente. Infatti noi friulani abbiamo davanti a noi la lezione quanto mai eloquente del terremoto del 1976. Il Friuli allora è cambiato radicalmente con le scosse della natura. Nulla di ciò che era prima è rimasto com’era.

Oggi il cambiamento non si limita ad un ambito territoriale e culturale ristretto, ma è diventato qualcosa di globale. Il coronavirus ci ha profondamente e personalmente cambiati anche se non lo abbiamo contratto direttamente. E ancora una volta tutto è cambiato. E’ da vedersi per quali aspetti in meglio e per quali aspetti in peggio.

La storia ricomincia a camminare, ma su sentieri nuovi che non sappiamo dove portano. L’isolamento ed il forzato freno alle nostre consuete attività non sono stati solo occasione di dispetto, più che di rispetto, ci hanno messo di fronte al tempo che da veloce e frenetico ha rallentato sino a darci la sensazione di non passare mai. Abbiamo riscoperto lo spazio domestico, relazioni più ravvicinate con la famiglia, il distacco da tutto ciò che ci sembrava imprescindibile e prioritario. Non ne nascerà certamente una persona nuova, ma un mondo nuovo.

E poi ci siamo confrontati con la morte. Prima di questo lungo elencare di trapassati era un tabù. Adesso scopriamo come siano stati illusori i pensieri di poter prolungare la vita oltre i suoi limiti naturali, grazie alla farmacopea e a migliori condizioni socio-alimentari. Quelle che con leggerezza abbiamo chiamato case di riposo per confinare i nostri “vecchi” sono diventate le case dell’eterno riposo. Doppia sofferenza abbiamo addossato a quei nostri anziani: la malattia e la lontananza degli affetti. E neppure un funerale, ma un rito affrettato con le ceneri.

Per tanti motivi non saremo più quelli di prima. Abbiamo però il dovere di far ripartire una storia umana, perché è questa la sua essenza. Dobbiamo rinforzare i fattori che ci hanno permesso di chiamare il nostro comune impegno come civiltà.

Questo lo dobbiamo alle generazioni passate come a quelle future.

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Il giorno del ricordo

ENRICO FANTIN

Tutte le guerre creano delle umane belve

La nostra associazione da sempre ha voluto testimoniare e scrivere, soprattutto per non dimenticare pagine di storia, anche molto tristi.

Il dovere della memoria è un imperativo morale da ricordare sempre, affinché simili tragedie non debbano mai più ripetersi.

Il 2 gennao 2020 si è spento nella sua casa natale, all’età di 99 anni, Giuseppe Comand, ultimo testimone dell’orrore delle foibe. Beppino Comand lo conoscevo bene, da molto tempo, essendo stata persona impegnata nel sociale, attivo nel settore agricolo e fu uno dei pionieri che contribuirono alla creazione del ponte di barche nei primi anni Sessanta che collegava Lignano Sabbiadoro a Bibione, attraversando il fiume Tagliamento nella località di Bevazzana. Negli anni Settanta a Latisana vi erano molti reduci della seconda guerra mondiale che avevano combattuto nei vari fronti. Pochissimi raccontavano brevi cenni dei patimenti, sofferenze, orrori; la maggior parte se ne stava in silenzio tenendosi quel macigno nel cuore come di Giuseppe Comand che non si seppe nulla fino all’articolo apparso sul giornale “Avvenire” nel gennaio 2018, a firma di Lucia Bellaspiga.

Pochi giorni dopo il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, dopo aver letto su “Avvenire” l’intervista a Comand, gli conferì l’onorificenza di Commendatore al merito della Repubblica Italiana: “a Giuseppe Comand, 97 anni, ultimo testimone oculare – da vigile del fuoco ausiliario – al recupero dei corpi di italiani infoibati”. Nel giorno del ricordo è doveroso mantenere acceso il lume sui fatti certificati dai testimoni della storia come quelli vissuti da Comand, affinché possano essere conosciuti dalle nuove generazioni e per non essere mai più scritti.

Dall’approvazione della legge “Menia” del 2004, con l’istituzione del Giorno del Ricordo (10 febbraio), tante sono ancora le ferite aperte. Contrariamente all’opinione dei negazionisti i fatti sono ben diversi: l’orrore delle foibe e l’esodo assurgono a un simbolo doloroso e, quindi, il “ricordo” deve essere onorato con rispetto affinché “il rumore del silenzio” non sia ancora uno strumento per cancellare il ricordo di ciò che non deve essere ricordato, per impedire che gli ultimi diretti testimoni parlino di ciò che sanno, per ottenere che gli altri, in particolare le giovani generazioni, vengano a conoscere quanto accaduto. Molte scolaresche vengono in visita ai luoghi dove si consumarono quelle tragiche vicende.

Riporto la notizia della visita di una delegazione di studenti di Roma, accompagnati dal Sindaco, apparsa sulla stampa ANSA del 15 febbraio 2020. “C’è una cancellazione storica” che riguarda le vittime delle foibe, “accompagnata da una interpretazione storica che è stata troppo spesso anche strumentalizzata a favore di una parte politica. Noi oggi iniziamo un percorso per riappropriarci e conoscere una parte della nostra storia”.

Lo ha detto la Sindaca di Roma, Virginia Raggi, parlando ad una delegazione di studenti della Capitale, in visita al Monumento Foiba di Basovizza, tappa del loro viaggio del Ricordo.

La Sindaca, ha inoltre sottolineato, nella visita al Centro di documentazione, come del tema delle foibe “non si è mai parlato e non si è mai parlato abbastanza”. “Siamo qui - ha concluso – per ascoltare i fatti in maniera non pregiudiziale, altrimenti non riusciamo a capire cosa è accaduto nei nostri luoghi”. (ANSA – 15 febbraio 2020).

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Nomi propri del XVIII secolo nel contado di Belgrado

ROBERTO TIRELLI

I nomi che i genitori scelgono per i propri figli sono sempre il frutto di una cultura di un’epoca. Per tradizione in Friuli i nomi li abbiamo sempre pescati fra i santi, ma non sono mancate epoche in cui sono stati corteggiati i politici ed i loro familiari (i vari Benito, Edda, Romano, Arnaldo etc) oppure i personaggi della televisione (Suellen, Heidi, Mike, Geiar, etc) o del cinema o della musica lirica e leggera.

Nel XVIII secolo le scelte onomastiche degli uomini le possiamo ricavare da documenti che li elenchino per qualche motivo. Uno di questi è il ruolo delle Cernide. Per quanto riguarda i paesi facenti parte del Contado di Belgrado abbiamo un lungo elenco ordinato dal Conte Mario Savorgnan del Monte e della Bandiera giurisdicente e residente in Flambro.

La prima fonte sono ovviamente i santi, anche perché, dopo il Concilio di Trento, non ci si poteva presentare al sacerdote con un nome stravagante ed anche se così era trascrivendo l’atto farà la sua opera di cristianizzazione, come l’ufficiale d’anagrafe di italianizzazione.

I santi sono ripetitivi soprattutto perché c’è l’abitudine di riprendere il nome del nonno o di un altro familiare, poi conta anche il santo titolare della parrocchia. Scorrendo le liste delle varie compagnie predominano i Giuseppe e i Giovanni (talora come Zuanne), ma anche vi sono molti Valentino, Giovanni Battista e Osvaldo Domenico.

Collegati comunque alla tradizione religiosa sono anche Santo, Angelo, oppure Natale( Nadaj).

A Lestizza vi è un numero consistente di Biagio come a Talmassons di Lorenzo che si riferiscono ai rispettivi patroni.

Indubbiamente interessanti sono i nomi rari. Giusto compare a Lestizza ed è il compatrono, Felice e Fortunato sono di Flambro ed allora bisognava aver alquanto coraggio a chiamarsi così. Santo, Aloisio, Agostino, Vittorio, Giacinto, Innocente, Taddio, Mauro, Zaccaria, Erminigildo, Lazzaro entrano nella categoria dei piè rari.

Spiritualità ed onomastica si legano, perché il nome è un segno ed è un messaggio che una persona si porta dietro tutta la vita e sempre vi si adatta.

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Dissidi e violenze a causa di terreni comunali promiscui di Latisana - Precenicco e Driolassa, Palazzolo e Rivarotta

BENVENUTO CASTELLARIN
Conseguenze della guerra tra i veneti e gli imperiali

Nel 1508, scoppiò in Friuli e nel Veneto la guerra tra l’imperatore austriaco Massimiliano I e la Repubblica di Venezia. Le battaglie, con alterne vicende, si protrassero fino 1516, anno in cui a Noyon fu firmata una tregua. Le trattative per arrivare a un accordo che preludesse ad un trattato di pace continuarono fino al 3 maggio 1521 con la sottoscrizione dei cosiddetti “Capitoli di Worms” in virtù dei quali agli imperiali sarebbero rimaste tutte le località conquistate da Massimiliano dal 1508 al 1516, e la Repubblica Veneta prometteva, tra l’altro, di astenersi, per tutta la durata della tregua convenuta, da ogni ingerenza e da atti di sovrana giurisdizione nei territori di Trieste, nella contea di Gorizia e nelle fortezze di Gradisca e Marano e su vaste zone del Basso Friuli ossia nelle ville di Farra, Villanova, Mossa ,Visco, Ialmicco, Nogaredo, San Vito al Torre, Crauglio, Ioannis, Tapogliano, Aiello, Villesse, San Nicolò di Levada, Villa Vicentina,, Fiumicello, Cervignano, Aquileia (salvi i diritti del patriarca), San Martino, Monastero, Terzo d’Aquileia, Fornelli, Torre di Zuino, Gonars, Ontagnano, Fauglis, Porpetto, Castello di Porpetto, San Giorgio di Nogaro, Chiarisacco, Villanova, San Gervasio e Carlino e nelle enclavi di: Sivigliano, Flambruzzo, Campomolle, Driolassa, Rivarotta, Precenicco, Pescarola, Titiano, Albana, Nebola, Dolegna, Goricizza, Gradiscutta e Virco austriaco. Sotto la dominazione veneziana furono riconosciuti Pordenone, Belgrado, Castelnuovo e Codroipo.

Nel 1523, fu firmato il trattato di pace, mai definitivamente applicato poiché l’Austria reclamava la restituzione di feudi già appartenuti al conte di Gorizia, mentre Venezia voleva avere il possesso su quelli che non furono mai in possesso dei conti goriziani. Nel tentativo di trovare in ogni caso un accordo che avrebbe dovuto dare un assetto definitivo alle rispettive pretese i commissari veneti e asburgici si ritrovarono nuovamente a Bologna nel 1529 decidendo di rimettere le varie controversie ad un giudizio arbitrale che si terrà a Trento a partire dal 1532. Nel 1535, dopo estenuanti trattative, le due parti giunsero a un accordo definitivo, ma anche questo non venne mai messo in atto: Venezia continuò a possedere i territori a lei sottoposti e così pure fece l’Austria. Ciò rese particolarmente difficili gli usi promiscui delle acque, dei pascoli e dei boschi che non di rado sfociarono in vere e proprie guerre, come vedremo nei casi che qui segnaliamo.

Il risultato fu che diversi paesi giuridicamente sottoposti all’Austria rimasero isolati e attorniati da territori sottoposti a Venezia e viceversa, si arrivò perfino a divisioni a metà di villaggi: si pensi a Virco (Bertiolo), il quale sarà metà veneto e metà austriaco.

Gli abitanti sia dell’una che dell’altra parte, quindi iniziarono a dar vita a delle contese causate dagli incerti e male assestati confini le quali molto spesso si tramutarono in risse e violenze di ogni genere.

Spesse volte si dovettero appellare alle rispettive autorità per il rispetto dei confini o per far cessare impedimenti. Le contese e le diatribe non riguardarono solo gli incerti confini ma anche ad esempio il contrabbando di certi generi già allora sottoposti a forti dazi come il sale, il tabacco e alcune specie di cereali.

Queste “isole” diventarono anche ricettacolo per chi aveva qualche conto in sospeso con la giustizia e molto spesso furono rifugio per la gente miserabile che veniva allontanata o emigrava spontaneamente dal proprio paese di origine.

Nei territori friulani sottoposti agli imperatori asburgici, furono creati i cosiddetti Stati Provinciali, più comunemente chiamati contee. Nel 1647 lo Stato di Gradisca divenne contea sovrana e fu posta sotto il dominio dei principi di Eggenberg. La contea di Gradisca era costituita da 43 altre comunità e, nel 1754, dopo l’estinzione del casato degli Eggenberg, fu riunita alla contea di Gorizia.

A partire poi dal 1751, data in cui fu soppresso il Patriarcato di Aquileia, i paesi sottoposti all’Austria, subiranno un’altra divisione, questa volta ecclesiastica, venendo a far parte nell’arcidiocesi di Gorizia. Questo stato di cose, almeno per quanto riguarda il Friuli cosiddetto veneto, cesserà solo nel 1818.

Finalmente dal 1750, tra l’impero e Venezia ripresero con miglior fortuna le trattative per giungere a un assetto definitivo del confine austro -veneto. A conclusione di laboriosi negoziati si giunse finalmente, alla firma di un Trattato Generale sottoscritto il 16 dicembre 1756 a Gorizia.

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Domini de Colloreto, et Ragonea capud ponunt in villa Muzana. L’amministrazione della giustizia a Muzzana nel XIV secolo

RENZO CASASOLA
Premessa

Nel presente contributo si traccia la cronistoria patriarchina prima, e comitale poi, dell’avvocazia amministrata nella villa di Muzzana nel XIV secolo che ebbe inizio con la sua donazione fatta dal Patriarca Woldorico II al Capitolo di Aquileia nel 1171; per giungere poi a quella esercitata dai suoi giurisdicenti: i signori di Ragogna e di Colloredo che la tennero in pacifice et quiete> consorzio dal 1341 al 1409. Ed è proprio da tale stagione storica che ci giungono le maggiori note d’archivio sulla giurisdizione civile, penale e criminale esercitata nella villa della Bassa Friulana inserita com’era nello stato di diritto feudale bassomedievale.

Lo scenario culturale della seconda metà del XIV secolo, oggetto di questo studio, è condizionato da una fase climatica fredda nella quale prevalgono le stagioni avverse ed i periodi di carestia sono frequenti. Una stagione politica e sociale alquanto vivace per la villa della Bassa Friulana circoscritta suo malgrado in un quadro a tinte forti in cui le annose liti confinarie, specie con le comunità di Mortegliano e Sant Andrat, le carestie e le epidemie rappresentano la desolante quotidianità. Pare del tutto evidente, perciò, che ai margini della società civile dell’epoca si aggirasse un nugolo di sbandati: vagabondi, malefatores e disperati, tutti personaggi devianti che vagavano senza fissa dimora, malvisti dal popolo, tra le ville della bassa pianura friulana. La tutela dell’ordine pubblico, della pace sociale e la salvaguardia delle risorse del territorio paiono perciò assorbire l’interesse della giustizia civile, penale e criminale dei suoi degani e giurisdicenti che contro di loro vigilava, interveniva, giudicava e comminava le pene corporali di primo, secondo e terzo grado.

Dalle carte consultate emergono i nomi di alcuni personaggi minori e devianti che vissero negletti ai margini della società civile e che scontarono con l’orrore della morte la propria pena. Sono i malefatores> che vissero extra communitatem ai quali venne perfino negata la sepoltura, dopo aver subito la pena capitale, in terra consacrata. Essi affiorano così dal plurisecolare oblio di chi li ha giudicati e condannati secondo uno schema ritualizzato e simbolico per porsi oggi, dopo sette secoli, al giudizio della storia. Quei disperati ci raccontano, dalle voci dei testimoni, della loro sofferta, crudele e negletta sorte, stemperata dalle pieghe del tempo e figlia di un lontano e oscuro passato.

usque ad aquam que dicitur Arvuncus.

Ad Aquileia il 13 luglio 1031 il patriarca Poppone (Wolfgang von Treffen) consacrò la rinnovata basilica, detta appunto ‘popponiana’, ed inaugurò il nuovo campanile. In tale circostanza egli decise di aumentare a cinquanta il numero dei canonici con la conseguente costituzione di cinquanta benefici corali per il loro sostentamento. Nella bolla vennero confermate le concessioni dei patriarchi precedenti e quindi elencati quelli donati ex novo al Capitolo: alcuni beni sulla piazza d’Aquileia e altri posti nel territorio del litorale friulano fino al corso d’acqua denominato Arvuncus: «(…) villam etiam de Mariano et villam de Carlinis et villam Sancti Georgii cum omnibus redditibus suis, una cum omnibus finibus et pertinentiis suis, cum campis, vineis, pratis, pascuis, cultis et incultis cum aquis aquarumque decursibus ac molendinis et insulis a mari et a flumine quod dicitur Cornium usque ad aquam que dicitur Arvuncus (…)».

Probabilmente le origini della donazione - come sottolinea lo Scalon - sono in rapporto a un progetto di bonifica e di un ripopolamento di questa vasta area di territorio friulano, sconvolta e abbandonata in seguito alle scorrerie e alle invasioni ungare del secolo X «Nel privilegio di Ottone III pubblicato a Ravenna nel 1001 infatti, le concessioni imperiali vengono esplicitamente collegate all’opera di ricostruzione post Ungarorum nefandam devastacionem».

Il confine della concessione patriarcale e della giurisdizione capitolare è posto sulla roggia Revonchio. Oltre vi è la villa di Muzzana con ciò che rimane del suo territorio inserito a nord-ovest, tra la roggia sopracitata e la roggia Cornariola, che in tale bolla rimane inspiegabilmente escluso dalle premure del Patriarca.

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La SNIA Viscosa e il mito della bonifica: propaganda e fake news degli anni Trenta

LORENA ZUCCOLO

Com’era la zona di Torviscosa o, meglio, di Torre di Zuino prima dell’arrivo della SNIA nel 1937?

Tra i vari contributi dedicati alla storia di Torviscosa, sono diversi quelli che suggeriscono che quest’area fosse, all’epoca, una landa misera, malarica e senza opportunità di lavoro e che le bonifiche siano state eseguite, almeno per la maggior parte, per merito e a spese della SAICI, la società che la SNIA Viscosa aveva appositamente creato per gestire l’impresa friulana. Questa ipotesi si propone fin dalle premesse: alla ricerca di un territorio adatto a ospitare la nuova attività, Franco Marinotti, allora amministratore delegato della SNIA Viscosa, si prefigge di “non intaccare terreni già adibiti ad intenso sfruttamento agricolo ed in avanzato ciclo produttivo”, possibilmente collocati in “zone gravate da disoccupazione operaia” 1 . Quando si parla e si scrive di Torviscosa, si cede facilmente alla tentazione di concludere che il territorio di Torre di Zuino sia stato scelto proprio perché soddisfaceva a queste condizioni.

In realtà, le bonifiche, in quest’area del Friuli, erano iniziate nel 1925 ed erano proseguite, con ritmi e risultati altalenanti, per circa un decennio. Nel 1937 una parte del territorio era comunque bonificata: oltre a gelsi e viti, si coltivavano frumento, mais e ortaggi. Perché, allora, nell’immaginario collettivo si è imposta l’idea che quest’area fosse ancora quasi del tutto paludosa o comunque improduttiva? È la potente macchina di propaganda della SNIA a riuscire in questo intento: questa immagine, infatti, corrisponde a ciò che la società afferma più volte e più o meno apertamente. Comincia subito, all’indomani dell’inaugurazione dello stabilimento costruito nell’ambito della nuova impresa che ha “trasformato l’aspetto della zona ancora ieri incolta e abbandonata”. In una elegante pubblicazione del 1941 edita dall’Ufficio Propaganda dell’azienda, si legge che i 5.300 ettari acquistati a partire dal 1937 a Torre di Zuino, dovevano “essere sistemati dal punto di vista idraulico, interamente bonificati, dotati dell’attrezzatura agricola necessaria, di una rete di vie di terra e di acqua”. E ancora, nel 1967:

“La mole del lavoro compiuto può risultare con significativa evidenza anche da poche cifre, che è opportuno ricordare:
Area totale ha 5.318
Superficie agraria interamente bonificata ha 5.250”.

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Pescaor con i guanti

BRUNO ROSSETTO DORIA

Finìa la guera del ‘45, gera tante le fameje de Maran che le feva i salti mortai pa’ rivà a mete in tola un piato de minestra, lo stesso anca nte la casa del zovane Giona. Fio de un pescaor de grasiui e de mare che la ndeva via col pesse, fin de picolo el pareva portò par la musica. Almoto, veva de gesse stò so’ nono Giovani, a lassaghe in redità sta passion. So nono durante la guera del 15/18 el veva sunò soto la diression del grando Pietro Mascagni a la Pergola de Firense. Sicome par via del conflito spesso capiteva che mancheva qualche elemento nte l’orchestra, dopo un provìn fato nte la caserma ndove che’l nono giovanin el suneva el clarineto nte la banda militar e sintùo come che ‘l suneva, lo ga volesto subito in te la so’ orchestra. Mascagni no ‘l podeva privasse de un elemento cussì pressioso, salvandoghe in sto modo probabilmente la vita.

I ani i passa e passa anca la seconda guera mondial, Giovanin dopo veghe insegnò al nevodo a sunà el clarineto e notae le doti che veva, el ga dito in casa che bisogneva mandalo a scola de musica. Figuremosse se la fameja la podeva permetesse de mandà un fio a scola, massima a la scola de musica, e co’ varissi pensò i maranisi, con la mentalitae serada che i veva quela volta...

Sarissi proprio bel de vede; sto fio de pescauri bel ganbiò, coi cavì lunghi, ciapà la curiera la matina e ndà a scola, intanto che i so conpagni i gera za da ore in palùo a lavorà, parché ntel dopo guera pena finìe le scole lementari, a squasi duti i fioi ghe tocheva montà in batela e ndà a pescà par giutà la fameja. Ma la passion gera passion e Giona grassie a l’aiuto del nono, el gera riussio a ndà scola. Deventò zovenoto, Giona, anca par no grevaghe a la fameja, el veva sintùo el bisogno de fa qualcossa in modo de pesaghe demanco, e co Tita More, ciamò cussì da i maranisi parché de carnason scura, el ghe veva domandò se ‘l ndeva a ciapà peoci con elo, Giona el ghe veva risposto de sì. Par di el vero, pena viste le so man piene de cali e de taj, el se gera preocupò, squasi pintìo... ma romai.

Tita el biteva a puchi metri de casa sua. Lo vedeva ogni zorno traficà con la cariola da la batela a la pescarìa: contentà i cliìnti, pesà i peoci e mitighili insima el camion. Omo par so’ conto, Tita el veva inpiantò na picola inpresa de pesca, che se parlemo de quela volta la gera aveneristica, inpensabile a vardà l’aspeto de l’omo, istesso el gera rivò a fasse un picolo alevamento de peoci ntel Cesareli, canal in palùo de Maran, che ‘l sta rente i Biuni, zona mensonada nti mii libri, ndove che da seculi la legenda disi che in quel giogo xe sapulìo el tesoro de Atila.

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Giussago e Lugugnana, due casi di stregoneria nel 1675

MAURO FASAN

Verso la fine del Seicento l’attenzione del Santo Ufficio riguardo la stregoneria iniziò a venir meno. Si dovrà però attendere il secolo successivo per assistere a un vero e proprio declino della caccia alle streghe, in Italia come in tutta Europa. Forse a fomentare la “caccia” negli anni precedenti furono i cambiamenti sociali, politici, demografici ed economici. È indubbio che tra il 1550 e il 1650 si registrarono fenomeni quali la sovrappopolazione, l’aumento dei prezzi, la maggior demarcazione dei ceti umili nella società, carestie e calamità naturali, epidemie di peste, elevata mortalità infantile e, infine, le continue guerre che interessavano l’intero continente.

È da chiedersi quanto il modificarsi di queste condizioni – quando effettivamente si verificò – incise sulla visione del mondo magico (e del suo operato nel mondo reale) e quanto invece fu una presa di coscienza a “depenalizzare” l’operato delle streghe. Ad ogni modo, negli anni Settanta del Seicento non era poi tanto improbabile trovarsi coinvolti in casi di stregoneria, come protagonisti, complici, vittime, o testimoni.

Il tribunale competente per tale materia era il Santo Ufficio, istituito nel 1542 e operante in tutta la penisola, compresi i territori di dominio veneziano. In Friuli, nella seconda metà del Seicento, la prassi maggiormente usata dai tribunali inquisitoriali fu la procedura sommaria, che dagli anni ‘80 del Cinquecento si impose gradualmente sul più articolato processo formale.

Si evidenzia subito che, tuttavia, i casi qui esaminati non riconducono a tale procedura, perché non si dispone di deposizioni delle accusate, che peraltro dovevano essere state “spontanee”. Dai documenti consultabili, emergono solo denunce e testimonianze rese su richiesta dei giudici di fede. D’altro canto, allo stato delle ricerche non si hanno elementi sufficienti per delineare l’istruzione di un processo formale. Addirittura non si possiede neppure una benché minima dichiarazione verbalizzata delle accusate, che conosciamo solo sui racconti al vicario dell’inquisitore.

Il 14 giugno 1675, davanti a Valerio Secchi, vicario dell’inquisitore per le diocesi di Aquileia e Concordia, e Francesco Pasqualigo, podestà di Portogruaro, si presentò Giacomo Michelino, rusticus di Lugugnana, ma residente a Giussago. La presenza del podestà - per questo caso costante al fianco del Secchi - è indice del buono stato delle relazioni tra la sede inquisitoriale locale e la Repubblica Serenissima. I tribunali del Sant’Ufficio, nel Dominio Veneto, funzionavano sulla base di accordi tra il Governo Veneziano e la Santa Sede (definiti nel 1551). Le parti convennero che fin dalle istruttorie fosse presente il rettore veneziano della città. In particolare, per il Friuli, a Udine il luogotenente e a Portogruaro il provveditore.

I rapporti tra i locali poteri ecclesiastico e civile si mantennero in buona sostanza improntati alla massima collaborazione, a eccezione del contrasto insorto con l’inquisitore Girolamo Asteo (1598–1608), circostanza che determinò la frettolosa e rocambolesca fuga del frate dal territorio veneto e certamente gli attriti di inizio secolo legati alla famosa “lotta dell’interdetto”. Alcune frizioni si ebbero anche, inizialmente, col provveditore di Cividale e poi negli anni Cinquanta del Seicento, per una questione insorta col luogotenente di Udine riguardante la formalizzazione delle procedure sommarie.

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Dall’Epistolario di Ippolito Nievo: lettere a Fausto Bonò di Portogruaro

VITTORIA PIZZOLITTO
L’incipit di Marco Belli

“Intendiamoci bene! E perché? Perché non si tratta di dir cose nuove, né di dare notizie provate da storici documenti. Dunque di che si tratta? [...] Tutte le persone colte sanno benissimo come nell’anno 1867 il romanzo del Nievo fu pubblicato, per la prima volta, in due volumi, dall’editore Le Monnier di Firenze. In Portogruaro, dove con la vicina Fratta, s’impernia l’azione del romanzo, si sapeva nulla di questa pubblicazione? Credo che pochissimi, all’infuori del Venanzio, del Bertolini, del Bonò e di qualche professore del nostro Seminario, ne sapessero qualcosa”. Faccio mio l’incipit di Marco Belli sulla Portogruaro delle Confessioni, per motivare questo lavoro sulle lettere di Ippolito Nievo a Fausto Bonò, Ispettore Scolastico di Portogruaro.

L’Epistolario di Ippolito Nievo

Risale agli anni dell’Università l’amicizia di Fausto Bonò con Ippolito Nievo: hanno un anno di differenza, frequentano lo stesso ambiente e gli stessi luoghi, hanno comuni amici e conoscenti, condividono la passione per il teatro e la poesia. Sono entrambi iscritti al corso di Giurisprudenza all’Università di Padova dove si laureeranno il primo il 22 novembre 1855, il secondo il 20 agosto 1857.

“Bonò è qui e passerò con lui delle buone ore” scrive Ippolito nel novembre del 1853 all’amatissima zia Carolina Marin Bagnalasta che, rimasta vedova del consigliere Augusto Marin fratello della madre, finirà i suoi giorni povera e malata, aiutata caritatevolmente dagli ex coloni passati al servizio dei nuovi padroni ed assistita dalla sorella Giulia, anch’essa anziana.

La sorella più giovane di Carolina, Clotilde Bagnalasta di Verona, tolta alla famiglia ed al suo fidanzato in Portogruaro il 27 Agosto 1854, verrà ricordata in una lettera di circostanza da Bonò a Nievo che pubblicherà nell’ «Alchimista Friulano» dell’8 ottobre 1854 una canzone in sua memoria.

Gli zii Marin conoscevano bene il giovane ed avevano spesso occasione di incontrarlo sia a Portogruaro sia a Teglio e questi, a sua volta, non tralasciava mai di chiedere loro notizie su Ippolito e di ricordarli e salutarli nelle sue lettere.

Della loro amicizia ci restano otto lettere di Bonò a Ippolito comprese fra gli anni 1854 e 1857 e quattro di Nievo a Fausto comprese tra il 1857 ed il 1858; altri riferimenti compaiono in lettere di amici comuni.

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Il tunnel segreto che decise le sorti di Caporetto

ENRICO FANTIN

Sebbene sia trascorso il primo Centenario della fine della Grande Guerra, ci sono ancora tante pagine da riscoprire e riscrivere la loro storia: in particolare quella che riguarda la “disfatta di Caporetto” che portò alla più grave sconfitta dell’esercito italiano.

Il governo dell’on. Vittorio Emanuele Orlando, con R.D. 12 gennaio 1918, volle istituire una Commissione d’inchiesta allo scopo di indagare e riferire sulle cause e le eventuali responsabilità degli avvenimenti militari che hanno determinato il ripiegamento del nostro esercito sulla Piave, nonché sul modo come è avvenuto il ripiegamento stesso.

Il 26 ottobre Cadorna fa emanare bollettini ottimistici, cercando di nascondere la verità al Paese ma ormai è chiaro che l’offensiva austriaca avvenuta tra Plezzo e Tolmino ha portato alla disfatta dell’esercito italiano.  Per Cadorna la Commissione voluta dal Presidente del Consiglio, on. Orlando, aveva un grave vizio di forma, perché lo stesso, come ministro dell’Interno del precedente gabinetto Boselli, aveva concesso la più larga tolleranza alla propaganda disfattista che fu la causa principale della depressione degli animi e della indisciplina nell’esercito.

In ogni caso questi comportamenti nei confronti degli ex combattenti furono assai ingiusti. Tanto più che — come ha scritto Antonio Gibelli in  La guerra grande  (Laterza) — nulla può avvalorare la tesi secondo la quale il disastro di Caporetto può «anche lontanamente essere stato causato da una qualche forma di ribellione o insubordinazione».

Ma, a detta di Cadorna, nei giorni di Caporetto «salvo pochissime eccezioni», il contegno delle truppe fu «indegno». Il generale, sconfitto, gettò la colpa sui soldati, davvero pensava che quei soldati non avevano combattuto «perché non hanno voluto combattere».

Per fortuna, a smentire le accuse fatte dal generale Cadorna verso i suoi soldati, spuntano diari e pubblicazioni di libri che rappresentano documenti molto interessanti in quanto svelano impietosamente la sprovvedutezza dei comandi e riabilita i nostri soldati.

A narrarlo è ad esempio il diario di uno che era lì, il colonnello Angelo Gatti, che in maniera un po’ contraddittoria scrive: “Nella giornata niente di nuovo. Il cannoneggiamento però e vivissimo. Il rumore infernale …” Gatti annota di avere incontrato, alle ore 18 del 24 ottobre 1917, il generale Cadorna: “E’ sereno, sorridente. Non è convinto che il nemico possa attaccare da Tolmino a Caporetto. Ci sono tre catene di monti in mano nostra, dice”.

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La Madonna della Misericordia e la storia di Spinetta Melchisadecco Agostino

CARMELA DE CARO

Nell’Archivio Storico di Codroipo tra la documentazione riguardante i profughi del ’17 del “dopo Caporetto”, è presente una lettera in tre pagine di un certo Spinetta Melchisadecco Agostino il quale, al momento della fuga da Goricizza di Codroipo elenca per iscritto tutti i beni che lascia in paese e zone viciniori, forse nella speranza di ritrovarli, forse per chiedere a fine guerra un risarcimento per eventuali perdite, forse nella disperazione di dover abbandonare i propri beni che ha tentato di proteggere nel momento in cui il nemico è ormai alle porte.

Ricostruire la sua storia ci permette di documentare una vicenda forse come tante altre ma, a differenza delle altre, risorta dal passato. La vicenda di Melchisadecco ci rinvia ai secoli Otto e Novecento in un Friuli povero e caritatevole ma ci porta a ripensare a un trapassato remoto in cui strutture di accoglienza per ammalati e bambini esposti ospitavano e crescevano neonati altrimenti destinati a ben più misero destino.

A Udine, dal tardo medioevo alla fine del sec. XVIII, l’assistenza agli Esposti presso il Brefotrofio Provinciale denominato anche Orfanotrofio o Ospizio degli Esposti, era affidata a due confraternite: quella di Santa Maria Maddalena e quella di Santa Maria della Misericordia, da cui prende poi origine l’omonimo attuale ospedale. Solo nella prima metà dell’Ottocento cominciò la separazione amministrativa tra l’attività di accoglienza a madri e bambini di competenza dell’Ospizio degli Esposti e il servizio ospedaliero. E fu dopo l’ingresso del Friuli nel Regno d’Italia, nel 1870, che la competenza sull’Istituto fu trasferita alla Provincia, che lo dotò di un proprio statuto e di autonomia amministrativa. Gli anni successivi furono caratterizzati da cambiamenti nella struttura e nelle funzioni, determinati dalle difficoltà economiche e dall’evoluzione della normativa nazionale. Nel 1934 la sede fu ampliata e arricchita di una scuola di ostetricia e un asilo e assunse la denominazione di “Istituto Provinciale per la Maternità e l’Infanzia”. L’ente fu sciolto nel 1982.

Ripercorriamo alcuni dei passaggi enunciati legati all’Ospedale di S. Maria Maddalena che originariamente accoglieva tutti gli esposti e all’Ospedale di S. Maria della Misericordia che in seguito accolse i bambini più grandicelli detti «da pane» per poi assumere dal 1584 il carico di tutti gli esposti senza distinzione di età.

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Tra i seicento friulani “optanti” diciannove profili

GIORGIO MILOCCO

Nell’attesa di un’altra mia pubblicazione riguardante, in questo caso, chi fra i prigionieri a.u. di lingua italiana poté far ritorno in Italia dalla Russia nell’inverno del 1916 (e nelle proprie abitazioni) propongo diciannove profili da cui si evince tutta una serie di dati e curiosità. Sono in totale all’incirca seicento persone provenienti e residenti nell’ex Contea Principesca di Gorizia e Gradisca che “optarono” per la cittadinanza italiana e realizzare così il sogno di riallacciarsi con i propri famigliari dopo due anni e mezzo di assenza. Soltanto una dozzina di essi poi approfittarono giunti a Torino di arruolarsi nell’esercito italiano per combattere a sua volta gli austroungarici. Anche questa è una vicenda di cui non si sa quasi nulla e che il Centenario appena concluso non ha dato quella attenzione che era comunque “dovuta”.

MONFALCONE
BOSCAROL ANTONIO
di Giuseppe (nato a Monfalcone il 4.9.1889). Ammogliato con due figli. Ribattitore di cantiere navale. Bracciante. Fante. I.R. Nr. 97. Partecipa alla mobilitazione generale del 25 luglio 1914 e come tanti altri parte dalla stazione ferroviaria di Monfalcone con direzione Trieste. Da questa città, poi, sempre in treno, giunge a Lubiana poi Budapest, Leopoli e la fortezza di Prezmysl. È impegnato sui Carpazi. Fatto prigioniero dai russi i quali lo inducano a portarsi all’interno dell’impero zarista. Dopo Kiev e Susdal giungerà a Kirsanov. Qui opterà per l’Italia e riesce partire via ferrovia il 14.9.1916. Giungerà nella città di Archangelsk il 20.9.1916 e salirà a bordo del piroscafo “Koerber” il 25.9.1916. Giungerà a Glasgow (Scozia) il 4.10.1916 e dopo aver attraversato l’Inghilterra, la Manica e la Francia, giungerà a Torino il 9.10.1916. In un primo momento lo raggiunse a Torino la moglie e poi chiederà di trasferirsi da Torino a Viscone (dove c’era il resto della famiglia). Potrà rientrare il 19.2.1917. Alle autorità risultava di:”Buona condotta in genere e politicamente innocuo” 1 . Con la “Rotta di Caporetto” è subito individuato dai militari austroungarici e arrestato come disertore. È portato a Udine e relegato in una cella di una Caserma sita in Piazza 1° maggio (denominazione attuale). Condannato per diserzione gli fu inflitta la pena di esposizione al palo per un giorno sulla linea del fuoco. Non accadde nulla ed ebbe salva la vita. Il periodo successivo lo trascorse come attendente di un capitano. Antonio è uno dei pochi reduci del 1916 che si era portato con sé un diario di guerra. Pubblicato nel 2007 dal Comune di Gradisca d’Isonzo in collaborazione con il Centro Isontino di Ricerca e Documentazione Storica e Sociale “Leopoldo Gasparini”.

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La coltivazione del riso a San Michele al Tagliamento

NELLO GOBBATO

Parlare della coltura del riso a San Michele al Tagliamento può sembrare piuttosto singolare.

Però, anche se non è mai stato una delle produzioni tipiche della nostra agricoltura, il riso ha una sua storia che riteniamo meriti di essere ricordata.

Questo cereale fece la sua prima comparsa a partire dalla seconda metà del XVI secolo grazie ai Mocenigo che lo introdussero nei loro vasti possedimenti del Veneto Orientale e nel territorio di San Michele, allora non ancora comune autonomo (lo sarà nel 1807), nei pressi della località Cedole.

L’area presentava caratteristiche particolarmente adatte alla risicoltura essendo costituita da terreni segnati da una marcata depressione e circondati da canali in grado di fornire acqua abbondante di cui la pianta ha bisogno per crescere.

Coltura di una certa rusticità, il riso si adatta a situazioni avverse dei suoli ed è in grado di migliorarne le potenzialità produttive con l’arricchimento delle falde freatiche, creando nel contempo le condizioni per l’avvicendamento di altre coltivazioni.

Nella seconda metà dell’800, con la cessione delle terre dei Mocenigo ad altri proprietari, la coltivazione del riso venne abbandonata.

Nel nostro Comune il riso fece una seconda comparsa presso la Tenuta Agricola Beltrame, una delle grandi aziende che operarono in particolare nella zona di Cesarolo introducendo nuove colture e apportando innovazioni nei sistemi di lavorazione in agricoltura. Fonti storiche attendibili attestano, infatti, che i terreni situati in località “la sbarra”, nei pressi delle vecchie scuole elementari di Marinella di proprietà dell’azienda Beltrame furono coltivati a riso fino al 1914 vigilia della Grande Guerra.

Nel lungo perido di riordino agrario attuato con la vasta opera di bonifica integrale realizzata nel nostro Comune tra le due guerre, l’attenzione fu rivolta ad altre coltivazioni, ritenute più adatte alla vocazione dei terreni sottratti alle paludi malariche come confermato dai risultati eccezionali nelle produzioni di frumento e mais, nell’allevamento del bestiame, e nelle condizioni di vita della popolazione, passata da 6.500 a quasi 10.000 abitanti.

Ma la storia doveva presentare ancora un’importante ultima novità: a Quarto Bacino, nella parte meridionale del nostro Comune, tra il 1925 e il 1930 erano stati bonificati dal Consorzio di San Michele 1.111 ettari di terreno (1.149,30 secondo una relazione del 1923 allegata al progetto dell’ingegnere Giustiniano Bullo) con un costo complessivo di 4.512.000 lire di allora.

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La rivolta dei “Rustici” di Muzzana contro il patriarca

ROBERTO TlRELLI

Nel secolo XIV in tutta Europa ci sono dei segni di malcontento da parte dei contadini che talora sfociano in vere e proprie rivolte violente.

Un piccolo assaggio di questo clima di contrapposizione fra dominati e dominatori si ha anche in Friuli con l’insolita alleanza fra Muzzana e Marano tradizionalmente avversarie.

Si dice che sotto sotto ci fosse l’interesse veneziano a sottrarre al Patriarca la località lagunare per cui i rivoltosi vengono sobillati, ma forse questa è soltanto una voce messa in giro per nascondere il disagio sociale.

In Friuli a livello popolare di solito non si manifesta il dissenso che pare essere un ulteriore privilegio della nobiltà castellana di sentimenti ghibellini e fieramente avversa ai patriarcati guelfi.

I popolari hanno altre priorità, assai elementari, cioè il come sopravvivere alla fame, alle malattie ed alla violenza. A stomaco vuoto non si fanno ribellioni, a meno che non sia per mettere qualcosa sotto i denti. Proprio per questa debolezza fisica il contadino si trova in uno stato di sottomissione totale a chi comanda.

Perché, allora, i maranesi si ribellano nel 1344? Il loro caso è diverso perché vivono in una laguna che è in grado di nutrirli a sufficienza e non sono molto soffocati da signorie feudali esose. Guardano oltre le lagune alla prosperità della Serenissima e ne sono attratti, facendo il confronto con la terraferma patriarcale. Già nel 1309 tentano una rivolta contro il patriarca guelfo e tutt’altro che mite Ottobono de Razzi, ma interviene una mediazione di Pietro Giusti, anche perché non appare opportuno aggregarsi ad una città come Venezia appena scomunicata per il suo comportamento nella guerra in corso della di Ferrara.

Nel 1344 i maranesi ritentano la secessione dal Patriarcato, quando in carica è il futuro beato Bertrando di Saint Geniès, che ha il suo buon da fare nel rintuzzare gli avversari interni e forse non considera grave il malcontento dei maranesi. Ha appena fatto l’accordo sull’Istria con i veneziani ed il Conte di Gorizia e probabilmente ritiene che il doge Dandolo possa essere già soddisfatto della dedizione di Treviso. Il vero immediato obiettivo di Venezia in realtà non è accontentarsi del già preso o di Marano da prendere, è quello di contrastare i genovesi nell’Egeo e sbarrare la via verso il mare al re d’Ungheria ed ai tanti potenti slavi. In particolare, Venezia ha timore che Ungheria ed Angiò di Napoli si possano saldare in un’alleanza ai suoi danni. Alla Serenissima interessano maggiormente Spalato, Traù, Sebenico e Zara.

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PRATURLON: I copa el zingheno col baston

GIANNI STRASIOTTO

Definiti il “blasone popolare”, sono arrivati fino a noi i titoli dispregiativi un tempo attribuiti agli abitanti di un paese, ormai ricordati solo dalle persone in età.

Come è noto, il blasone rappresenta lo stemma di una casata o di una città. Il blasone popolare appartiene alla tradizione, al folklore, ed è una forma di dileggio usata per sottolineare, sempre negativamente, le caratteristiche di un luogo, mettendo sull’avviso quanti dovevano recarsi o trattare con le persone provenienti dallo stesso. Rimasto vivo per secoli, ora è quasi del tutto scomparso con la millenaria civiltà contadina. La funzione storica del folklore doveva essere quella di conservare inconsapevolmente il patrimonio culturale e di tramandarlo. La memoria popolare è un immenso archivio di tradizioni culturali delle epoche più varie comprendente canti, favole, credenze, usi, tecniche agricole, artigianali e artistiche, consuetudini alimentari, forme di organizzazione politica, giuridica e sociale.

Nel n. 68 (giugno 2014), “la bassa” ha pubblicato una mia ricerca, limitata alla zona del basso pordenonese, dove sottolineavo come alcuni detti, giunti a noi dalla tradizione orale, riportino spesso dei fatti accaduti nella località e un’immagine della vitalità della cultura popolare italiana. Qualche esempio (non presente nell’articolo del 2014). Caorle, località isolata, non sembra avesse il suo blasone, fino all’arrivo dei sottani arrivati a lavorare i terreni di bonifica della varie “prese” a partire dal 1880, in buon numero insediatisi nella vicina Ca’ Corniani, dove subito entra in funzione una balera. Gli abitati della vecchia Caorle vi si recano, iniziano a insidiare le ragazze nuove arrivate, provocando un’immediata rivalità. I giovanotti della nuova Caorle contadina tendono agguati, danneggiano le biciclette degli incursori, mettono in atto tanti gesti ostili e coniano una serie di “apprezzamenti”, quali:

Oc, Pitoc Caorlot, tut de un toc”, ... Caorloti sangue de rana”, Caorloti magna pesse mars”, I Caorloti i xe roversi come i soasi, cioè le passere. (Nell’ordine: il Caorlotto è equiparato, per il vaniloquio rumoroso allo starnazzare dell’oca e al gloglottio del tacchino; il sangue della rana sta a indicare il carattere freddo e anaffettivo; il pesce pregiato era venduto e le famiglie si cibavano la minutaglia deperibile e scadente; i Caorlotti hanno l’intestino dalla parte opposta come i passerotti).

La risposta non si fa attendere: “Contadini de Ca’ Corniani, magna rospi e fioi de cani”.

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